Tutti i guai dell’IMU

A che punto siamo con la tassa sulla casa, che tra rate, aliquote e catasto è molto criticata anche da chi dovrebbe riscuoterla

di Marco Surace - @suracemarco

La commissione Finanze della Camera ha approvato un emendamento del decreto fiscale che dovrebbe permettere di pagare in tre rate l’IMU sulla prima casa. L’IMU, cioè Imposta Municipale Unica, è stata introdotta con il federalismo fiscale: sostituisce l’IRPEF sui redditi fondiari da seconde case e l’ICI, introdotta nel 1992 e abolita per le prime case nel 2008. Il federalismo fiscale, approvato dall’ultimo governo Berlusconi, introduceva l’IMU a partire dal 2014: la manovra economica varata dal governo Monti ha anticipato la sua introduzione al gennaio del 2012. Il governo ha stabilito che l’IMU sarà pagata anche dalle prime case con alcune detrazioni e sarà applicata sul valore catastale degli immobili, calcolato secondo coefficienti rivalutati.

Non è così semplice, però, e da settimane si rincorrono proposte e polemiche in relazione all’entrata in vigore della nuova imposta. A due mesi dal pagamento della prima rata i dettagli sulle modalità del pagamento sono ancora poco chiari. È abbastanza normale che l’introduzione di una nuova imposta provochi critiche e malcontento da parte di chi la deve pagare. È meno normale che tale atteggiamento arrivi da chi la deve riscuotere, cioè in questo caso gli amministratori locali, che devono stabilirne le aliquote e incassarla (anche se in minima parte).

A dispetto del nome – che si rifà ancora al termine Municipio per indicare il Comune, nonostante la legislazione italiana abbia definito la sostituzione con il testo unico degli Enti Locali dal 2000 – l’IMU è essenzialmente un’imposta centralista. In primo luogo perché tutti i soldi riscossi con le aliquote base, 4 per mille sulla rendita rivalutata per le prime abitazioni e 7,6 per mille per tutte le altre, vengono poi tutti ripresi dallo Stato (per la precisione, parte vengono presi direttamente e parte restano ma il loro importo viene compensato esattamente da una pari diminuzione dei trasferimenti da parte dello Stato). Affinché l’imposta dia benefici a livello comunale, è necessario pertanto alzare le aliquote, e anzi la diminuzione dei trasferimenti – indipendentemente dall’IMU – obbliga all’innalzamento delle aliquote anche solo per mantenere lo stesso livello di entrate.

In secondo luogo perché nel DL 201/2011, cioè la manovra del governo Monti che ne stabilisce le caratteristiche, le possibilità fornite ai comuni per agire sulle aliquote sono minime. Le variabili sono essenzialmente tre: l’aliquota per le prime abitazioni, tra il 2 e il 6 per mille (ma il 4 va comunque a Roma); l’aliquota per tutti gli altri immobili; l’aliquota per gli immobili sfitti da oltre 2 anni, entrambe tra il 4,6 e il 10,6 per mille (ma il 7,6 va comunque a Roma). Questo significa, tra l’altro, che se un Comune ritenesse di applicare una aliquota inferiore, dovrebbe comunque versare al governo centrale gli importi calcolati con quella base, attingendo a risorse proprie (l’addizionale comunale all’IRPEF, ad esempio, o le tariffe sui servizi).

Le tipologie catastali, su cui poter calibrare la tassazione, sarebbero quasi 50 (dai castelli ai supermercati). Sono divise in cinque grandi gruppi: le abitazioni, le strutture collettive, le strutture commerciali, le strutture produttive o particolari e gli immobili ad uso pubblico o di interesse collettivo. Ma tutto ciò non è permesso: le tre variabili sopra elencate non prevedono possibilità di distinzione. Eppure l’aliquota corretta per tassare le seconde o le terze case potrebbe essere diversa da quella per il locale di un panettiere, e non è detto che sia la stessa cosa chiedere più soldi a chi ha un appartamento sfitto da oltre due anni in una città ad alta pressione abitativa o farlo con chi possiede un capannone sfitto da due anni per colpa della crisi economica. Anche dover considerare sfitte le abitazioni degli anziani residenti in casa di cura appare una forzatura poco giustificabile.

Tutto questo sempre nell’ipotesi – tutt’altro che verificata – che le rendite catastali rispondano allo stato reale degli immobili, quando tutti sanno che l’aggiornamento del catasto è uno dei tanti vasi di Pandora del nostro paese. È dal DPCM del 14 giugno 2007 che si parla concretamente di passare il catasto ai Comuni, ma dopo ricorsi e contro ricorsi al TAR e al Consiglio di Stato siamo ancora fermi. Se ne riparla proprio in questi giorni all’interno del decreto sulla delega fiscale.

Lo stesso vale per le detrazioni. La legge prevede 200 euro di detrazione per la prima abitazione, e ulteriori 50 euro per ogni figlio residente al di sotto dei 26 anni. Le critiche, al di là della scelta calata dall’alto, sono anche di ordine sociale, dal punto di vista dell’equità, uno dei principi dell’azione di Monti. Le detrazioni sui figli, a prescindere dal reddito degli stessi, paiono quasi premiare gli “sfigati” del sottosegretario Martone. Perchè le detrazioni non sono per i familiari a carico, comprendendo così i figli che non lavorano ma anche gli anziani o i disabili? Perchè non viene mai utilizzato il parametro ISEE per la loro modulazione? La gran parte dei sindaci chiedeva di determinare, a livello centrale, quanto denaro ogni comune doveva versare nelle casse nazionali a seguito del prelievo IMU, e poi lasciare alle amministrazioni locali la facoltà di decidere quali aliquote stabilire su ogni tipologia di immobili, quali e quante detrazioni, in base alle scelte politiche e all’abilità di chi amministra. Che in fin dei conti chiede i soldi ai cittadini e si assume di fatto la responsabilità di scelte non sue.

I sindaci, stando a quanto dice la legge, sono generalmente tenuti a deliberare “entro il 31 dicembre il bilancio di previsione per l’anno successivo”. Dato che, come abbiamo detto, l’IMU ha preso forma con la manovra del dicembre 2011, era prevedibile uno slittamento nell’approvazione dei bilanci di previsione. Slittamento che comunque avviene non di rado, perché la stessa legge dispone che tale termine possa essere differito con apposito decreto, che in genere lo proroga al 30 aprile. Quest’anno si parla già di giugno o addirittura agosto.

I comuni di norma cercano comunque di deliberare quanto prima il bilancio di previsione, perché nelle more dell’approvazione la capacità di spesa dell’Ente è molto più complessa e limitata, con la cosiddetta “gestione in dodicesimi”: ogni mese non si può spendere, per ciascun capitolo, più di un dodicesimo rispetto a quanto stanziato per quel capitolo con il precedente bilancio di previsione. La mancata approvazione del bilancio di previsione nei termini di legge è poi causa di scioglimento del Consiglio comunale. Per cui, nonostante le perplessità sopra indicate, molti enti locali hanno approvato o comunque si apprestano a deliberare i loro bilanci di previsione, di cui l’IMU riveste un ruolo fondamentale dal punto di vista delle entrate – quindi dei servizi erogati e, in seconda battuta, anche del rispetto del Patto di Stabilità (che è molto legato alle entrate). Peccato che, fin dall’introduzione dell’IMU, quattro mesi fa, si rincorrono voci su possibili modifiche sulla sostanza – aliquote, detrazioni – e sulle modalità di pagamento – due o tre rate – con un balletto che ricorda tristemente l’incertezza fiscale degli ultimi tempi del governo Berlusconi e delle continue manovre finanziarie del ministro Tremonti nel 2011.

L’IMU, nel decreto citato, viene introdotta espressamente “in via sperimentale”, per cui si poteva tranquillamente tenerla come era nel 2012, valutarne gli effetti e le criticità – come una sperimentazione che si rispetti – e poi calibrarla nel 2013 o nel 2014 in base a quanto emerso. La mancanza di certezza e di indicazioni chiare era una delle critiche più frequenti alla politica italiana recente. Non sembra che la tecnica abbia risolto il problema, almeno riguardo l’IMU.