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Venezia, tre scene dalla crisi

Che ne sarà di Occupy Wall Street, cosa discutono i critici del sistema capitalistico e bancario e altri pensieri dalla laguna

di Filippomaria Pontani

La sola Coin, forse più sensibile al tema in quanto italiana, fa notare come un’iniziativa come Occupy è nata in un clima storico, quello della crisi dei subprime e dei suoi inestinguibili effetti, ma sta ora prosperando in un altro, ovvero nella cornice di un debito che non attanaglia più solo i privati ma le nazioni stesse, un debito che va inteso sia come stato economico sia – più proficuamente – come stato psicologico di soggezione individuale e collettiva, come stato d’eccezione: forse in fondo proprio questa funzione di Occupy come grimaldello di condivisione per ripensare e infirmare le catene degli attuali meccanismi della ricchezza (una funzione alquanto diversa da quella che hanno assunto le mobilitazioni nei Paesi arabi) potrebbe risultare alla lunga – se ben sfruttata – la sua forza. Una forza da giocare nei prossimi mesi sul filo dell’elaborazione teorica, anche collettiva e forse soprattutto universitaria, ma chiamata a misurarsi nel breve periodo con il dilemma annoso di simili movimenti, ovvero il rapporto con la democrazia rappresentativa.

Coda
La crisi presente pone tutti noi dinanzi a interrogativi profondi, e ognuno beninteso può reagire ai diversi argomenti qui esposti (e a molti altri) secondo le proprie convinzioni, nella speranza magari che sia anche disposto a metterle in discussione. Allo stesso modo, ogni interessato può liberamente interrogarsi sul ruolo dei partiti di “sinistra” in questa dinamica di pensiero: il ruolo attuale molti lo definirebbero, nella migliore delle ipotesi, come il classico, e responsabilissimo, “kicking the can down the street” (prendere a calci il barattolo, ndr). Tuttavia, restando sul piano strettamente metodologico, colpisce che l’università pubblica – luogo per eccellenza della ricerca e dell’avanguardia – ospiti una celebrazione del dibattito mainstream, con valutazioni prudenti, difesa di posizioni acquisite, e nessun respiro che vada al di là dell’ovvio (se non fosse per la peraltro inattesa portata delle contestazioni), mentre una forma di riflessione più evoluta (certo criticabile, ma difficilmente liquidabile come mero velleitarismo, e certo non da parte dei tanti che a giugno si rallegrarono per gli esiti elettorali) trovi il suo palcoscenico all’interno dei centri sociali.

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Chi legga i libri di Gallino e Mattei (pur così diversi) troverà pagine illuminanti sul ruolo “performativo” che molti dipartimenti di economia hanno svolto nella degenerazione del sistema finanziario, e altre pagine sul peso dell’evoluzione aziendalistica dell’università (perseguita in omaggio a una stolida celebrazione del sistema americano, di cui non si approfondiscono o non si dichiarano i meccanismi latenti) nel mantenimento dell’ideologia dominante. Forse varrebbe la pena di meditare sulle forme (sempre più rare, e non certo limitabili ai nostri clic e ai nostri laptop) di condivisione del sapere, e di conseguente azione “politica” nel senso più alto del termine.

(ANDREA PATTARO/AFP/Getty Images)
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