Tra gli interventi nella discussione si è segnalato quello di Beppe Caccia, che è uno dei pochi consiglieri comunali di Venezia ad aver condotto, pagando anche di persona in termini di minacce e percosse, battaglie contro gli scempi con cui le amministrazioni del PD hanno devastato la città, dalle grandi navi al Mose alla cementificazione del Lido a TesseraCity. Caccia ha insistito sull’utilità del concetto di “beni comuni” come meccanismo di redistribuzione della ricchezza, e nel solco della visione “utopistica” promossa da Mattei, alternativa alla pratica delle enclosures o alla presentazione dello “stato di natura” come il caos originario del bellum omnium contra omnes, ha richiamato esempi peraltro geograficamente a noi limitrofi, come il “Kommunalismus” dei Grigioni e gli articoli di Ilanz (1524). Che credesse o meno alla praticabilità di questo tipo di evoluzione politica e organizzativa, il pubblico, silenzioso e attento nelle cospicue nuvole di fumo (raro l’abbaiare degli immancabili cani), era così indotto a convogliare lo sdegno per le alte retribuzioni dei banchieri in una considerazione più larga del problema, ovvero nel quadro dell’ormai assoluta sudditanza degli organismi democraticamente eletti alla volontà delle classi dominanti (in particolare le corporations). Lo smantellamento del welfare state, gli interventi su salari, pensioni e mercato del lavoro, e insomma tutto il rush-to-the-bottom cui stiamo assistendo in questi mesi non rappresentano che il trionfo di un’ideologia fondamentalmente neoliberistica che risponde agli interessi delle corporations (tutto si fa, dichiaratamente, per attirare i loro investimenti), e promuove i tratti salienti dell’ homo oeconomicus, ovvero individualismo, dominio e dimensione quantitativa: la retorica del marketing, del consumo e della “crescita” anche quando questi sono palesemente insostenibili sul piano dell’ecologia e dei bisogni; la retorica dell’affermazione di sé legata alla competizione individuale nei termini della quantità di credito bancario ottenibile da ciascuno; la retorica dell’inevitabile opposizione fra sovranità statale e libertà privata, in nome della religione del soldo e a esclusione di ogni idea di “comune”.
Scena terza
Venice International University, Isola di San Servolo, 15 dicembre 2011. La Conference Room di questa ricca e trendy istituzione internazionale, che accoglie i visitatori con poderose opere di Plessi nell’atrio, è popolata da un folto pubblico accorso per assistere a un dibattito fra il politologo Michael Hardt e l’artista René Gabri in merito al movimento Occupy Wall Street. Pubblico meticcio (tanti occhi a mandorla, molto slang americano), lingua veicolare – del resto statutaria nell’istituzione quasi extraterritoriale – l’inglese.
I due ospiti, moderati da Stefano Micelli e accompagnati dai commenti della sociologa Francesca Coin, affrontano il fenomeno da due angolazioni diverse: Gabri come attore diretto di forme di autogestione e di “democrazia partecipata” già ben precedenti il movimento Occupy (anzitutto 16Beaver), e successivamente legatesi alle manifestazioni di Zuccotti Park e dintorni; Hardt come teorico di una linea di pensiero che rifiuta la globalizzazione e la sua governance, dipingendola – è il titolo del libro che ha scritto insieme a Toni Negri nel 2000 – come un “Impero” da sconfiggere.
Se dunque Gabri insiste sul sentimento di “elettricità” e di libertà contagiosa che il movimento Occupy ha instillato nel cuore di New York, e celebra l’egualitarismo “orizzontale” che vi prevale, lasciando spazio alla libera creatività artistica e teorica anziché alla trasmissione gerarchica del sapere (memorabile un recente seminario dal titolo “Truth and politics”), Hardt si pone il problema della continuità del movimento newyorchese rispetto alla striscia partita da Tunisi e passata per il Cairo, Madrid, Atene, Tel Aviv, Londra e da ultimo Mosca. Per Hardt questi fenomeni non sono soltanto uniti da analoghe rivendicazioni (per la democrazia, contro la concentrazione del potere), ma vanno letti in un quadro globale, in quanto ciascuno si è più o meno dichiaratamente modellato sui precedenti: in tal senso, egli rivendica anche una forma di continuità rispetto alle esperienze dei “no-global” del 1999-2001 (da Seattle a Genova), con la sostanziale novità che oggi i movimenti sono stanziali e non più nomadi.
Viene da chiedersi se il sostanziale fallimento di quei movimenti, che pure la storia successiva ha mostrato ricchi di buone intuizioni e di buone ragioni, non debba insegnare qualcosa agli epigoni attuali. Ma nessuno lo chiede. E la nebbia fitta che avvolge la Laguna (a poca distanza occhieggia San Lazzaro degli Armeni, in lontananza il Lido) si impadronisce dell’ampia capriata sulle nostre teste quando si arriva a parlare di obiettivi e prospettive del movimento Occupy: Gabri si spinge ad auspicare che lo Stato venga espropriato di tutto il potere che gli assegniamo oggi, mentre Hardt più prudentemente individua la forza di questo movimento proprio nel fatto di non avanzare richieste, nella sua pretesa di sviluppare pensieri, metodologie e verità “inattuali” in quanto “più avanzate” rispetto allo stato del dibattito presente, ergo da valutare in un orizzonte di lungo periodo.
Non pare preoccupi nessuno la (viceversa concretissima, anzi immediata) possibilità che, aspettando la riscossa di primavera, Occupy Wall Street venga risucchiato, nella rappresentazione generale, nel maelstroem del velleitarismo, o peggio venga consegnato alla storia come ciò che sicuramente non è, ovvero un rifugio elitario per i quaranta-cinquantenni senza lavoro o, peggio, un fenomeno mediatico in ultima analisi funzionale alla conservazione dell’esistente. Hardt ha facile gioco a osservare che perfino Obama, come tutto il resto della politica americana, si è dovuto prima o poi confrontare con questo fatto nuovo (nuovo per l’America, almeno); ma quando dal pubblico si reclamano dettagli sull’elaborazione di un’agenda politica che traduca in “azioni” le sacrosante rivendicazioni di “social equity”, o sulla chance di intercettare nel largo pubblico (l’ambìto 99%) qualcosa che non sia solo il dissenso rispetto a uno status quo ormai poco sostenibile, le risposte stentano ad arrivare.