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Venezia, tre scene dalla crisi

Che ne sarà di Occupy Wall Street, cosa discutono i critici del sistema capitalistico e bancario e altri pensieri dalla laguna

di Filippomaria Pontani

Scena seconda
Centro Sociale “Morion”, 6 dicembre 2011. Circondato dai manifesti di lotte e dimostrazioni condotte negli ultimi vent’anni in diverse parti del globo, un gruppo assai eterogeneo di spettatori si è riunito per assistere alla presentazione del libro di Ugo Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Laterza 2011. Come sempre – complici i vaporetti e lo strutturale lassismo temporale del luogo – s’inizia con 40 minuti di ritardo, in una notte umida ma non fredda. Mattei, professore di diritto civile a Torino e alla UCLA, è ben noto al pubblico di studenti, di simpatizzanti di mezza età, e di curiosi, come promotore del referendum sull’acqua, come editorialista del Manifesto, e come principale teorico italiano di un pensiero radicalmente alternativo rispetto ad alcune convenzioni correnti. Le domande della giovane moderatrice lo sollecitano a ripercorrere l’ossatura del libro, che vuole riprendere la tradizione utopistica alla Tommaso Moro per disegnare una progressiva liberazione dalle strutture che comportano esclusione, competizione e ingiustizia: Stato e proprietà privata.

Il radicalismo del discorso è forte (implica una critica del concetto di “diritto oggettivo” e di “legalità” o rule of law), ma conserva una sua logica coerente sia nell’analisi di lungo periodo sia in quella dei fatti recenti. I beni comuni non vanno intesi, secondo Mattei, come semplice soprammobile che orna un sistema già definito (così è avvenuto per esempio con le teorie di Elinor Ostrom, insignite del Nobel e prontamente risucchiate nel circuito dei buzzwords globali che già ha metabolizzato concetti potenzialmente rivoluzionari come “sostenibilità” e “green economy”, oggi patrocinati dai fautori della TAV e dai consiglieri dell’ENI): i beni comuni sono al contrario il grimaldello per uscire dalla dicotomia pubblico/privato (e dall’ormai onnipresente retorica del profitto), per favorire la nascita di forme di un governo partecipato che restituisca l’acqua, il sapere universitario, il patrimonio culturale, il lavoro, le cure mediche, la rendita fondiaria, l’informazione «alle moltitudini che ne hanno necessità».

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Il discorso pubblico italiano, largamente in mano ai poteri che condizionano l’evoluzione politica, sembra avere totalmente cancellato il movimento dell’estate 2011, quando una campagna “dal basso” come quella referendaria ha fatto intuire al Paese un possibile passo verso la presa di coscienza del valore democratico della condivisione e della battaglia comune, completamente al di là e al di fuori delle direttive di partito (non è un caso che i referendum e le elezioni di Milano e Napoli abbiano segnato dure sconfitte della linea del principale partito dell’allora opposizione). Mattei allude addirittura a un nesso causale tra l’attacco speculativo insorto contro l’Italia poche settimane dopo i referendum e il rischio che un grande Paese europeo imboccasse strade diverse da quelle care al grande capitale internazionale – quest’ultimo non è un concetto astratto, ma si sostanzia di un discreto numero di banchieri, economisti e (ormai quasi indistinguibili) governanti preposti ad agitare spettri d’insolvenza per imporre politiche oggettivamente contrarie agli interessi dei più, e fondate sull’idea falsa che il debito pubblico riposi anzitutto sui lussi del welfare state invece che sulle sregolatezze del mercato finanziario globale.

Il fulcro del contendere è ovviamente il concetto di privatizzazione, prassi alla cui discutibilità giuridica Mattei dedica molte pagine del suo libro, deplorando che essa sia ormai divenuta parte irrinunciabile di un discorso politico che accomuna senza distinzioni partiti d’ogni colore (esperienze come quelle dell’ABC, l’Azienda per l’Acqua Bene Comune di Napoli, rimangono purtroppo marginali). Chi nutra dubbi sul nesso fra privatizzazioni, governo del capitale e democrazia, non avrà che da guardare all’esempio greco, dove lo spolpamento forzato delle risorse del Paese (dagli aeroporti alle isole) avviene sotto la guida di economisti di fiducia nemmeno eletti da alcuno, e dove il solo annuncio di un referendum da parte del precedente premier ha condotto alla sua fine politica: che indire un referendum su misure tanto draconiane non sia un omaggio minimo dovuto alla democrazia (se ancora esiste il concetto), può essere sostenuto solo da quanti credono che il popolaccio vada governato da chi ha senno e soldi. O da quanti traggono linfa dalla denigrazione della gestione pubblica per incensare il modello privatistico (un economista del PD, durante l’incontro con Profumo, mi contestava: “ma allora tu l’acqua vuoi lasciarla in mano alle mafie dei partiti?”), e per giungere sull’onda dell’indignazione popolare alla denigrazione della politica in quanto tale, e indirettamente della democrazia rappresentativa (gli USA, certo, hanno molti meno parlamentari di noi: qualcuno ha presente quali fortune e quali appoggi lobbistici sono indispensabili per essere eletti al Congresso in quel Paese?).

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