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Bravi a scuola

La sinistra, le élites e i banchi della terza fila nell'Italia del governo Monti

di Giuseppe Provenzano

Va bene, la manovra è discutibile. Ma non vedete come già il tono del discorso pubblico s’è alzato? Le Camere provano a emendarsi da mesi di risoluzioni sui sotterranei di Arcore, vi pare poco? È il primo effetto dei “bravi a scuola”. E bisogna sperare che non passi in fretta e le comprensibili delusioni non si volgano nel ripudio dell’onesta competenza – ché già tuona l’accusa: non serviva certo l’élite per tassare o tagliare all’ingrosso!

Ci si è vergognati di molte cose, nell’Italia berlusconiana. Ma assai più rivelatrici sono le cose di cui non ci si è vergognati più. In questi anni, non ci si è vergognati più dell’ignoranza. Ministri, non solo leghisti, rivendicavano di parlare come ci s’abbuffa all’osteria. “Sono solo parole…”, era la formula di assoluzione per ogni infamia proclamata. Le volgarità diffuse tra gli “eletti” erano esibite come prossimità alla “gente”, complemento di un potere forte, legittimato dalla volontà popolare. C’è un motto diffuso un po’ ovunque nel Mezzogiorno, a tardiva giustificazione di ogni intemperanza: “m’è scattata la ‘gnoranza”, si dice. E forse c’è del compiacimento nella frase ma è frutto della consapevolezza della colpa, dell’errore. La regressione compiaciuta alla brutale semplificazione dei problemi è stato il costume recente di una politica che ha giocato al ribasso con il popolo, coltivando il mimetismo nei disvalori messi in atto senza pudori, confermando e moltiplicando la base morale di un’arretratezza civile. I leghisti si sono solo spinti più degli altri all’estrema deriva, e c’è persino un’ostinata coerenza “antielitista” nella loro furba e isolata opposizione al governo dei professori.

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“Il popolo è così”, hanno detto. E bisogna avere una considerazione del popolo assai scarsa o troppo alta di se stessi, spacciando per migliore intelligenza quella che è solo un’ulteriore camuffata ignoranza. Berlusconi nei suoi lati più oscuri, che non sono solo gli affari pruriginosi, era come dicesse: gli italiani sono come me, solo che io sono un po’ più italiano degli altri. Poteva perciò eccellere nel trucco della mimesi. Sono uno di voi! E loro: è “uno di noi”! Come Di Pietro e il suo italiano strapazzato: i congiuntivi sono un lusso da professori, l’antielitismo si accompagna sempre all’antintellettualismo – ricorda Luca Sofri trattando il tema, con occhio all’America di Sarah Palin, nel suo Un grande Paese (BUR, 2011). Ma il cortocircuito demagogico, depurato degli aspetti più volgari, ha attecchito anche a sinistra. In una comunità politica che forse viveva il complesso di un distacco reale dalla “gente” o il rimorso di una lunga mancata consuetudine col “popolo vero”: gli operai che votavano Lega, e così via. Il mito del “radicamento territoriale” è stata la coda ingenua e velenosa di questo senso di colpa: come se la Lega, più che rappresentare legittime ambizioni e aspettative delle comunità locali, non finisse per dar voce grossa soprattutto a paure, egoismi e miserie particolari.

Che gli eletti siano sempre meno gli “eletti”, è problema decisivo delle democrazie. Populismi vecchi e nuovi avanzano non solo nella nostra provincia. E sono questioni che hanno a che fare con la perdita di ruolo e potere reale della politica: se la maggioranza dei deputati spesso si limita a schiacciare un tasto, allora le carriere politiche si prestano a igieniste dentali, segretarie fedeli, figli di senz’altri meriti e nominati con più o meno spettacolare improvvisazione. L’uomo qualunque finalmente si è scoperto deputato o anche vice Ministro. Con l’elemento speciale di degenerazione proprio del costume nazionale, dell’antico vizio italico di “élites” che si formano per vincoli di sangue e affiliazione – familismo di figli nipoti e cognati, e amanti e servitù.

Eppure, nella prima Repubblica, intelligenza e cultura erano ancora un vanto, e nei grandi partiti per un bel po’ primeggiarono i “bravi a scuola” (scuola di partito, certo). Il meccanismo di selezione alla rovescia delle élites si è perfezionato solo con la seconda Repubblica, quando l’ignoranza non è stata più tabù politico.

Nel declino dei “bravi a scuola” è il declino dell’Italia. E ci sono aspetti strutturali: un’economia sempre meno competitiva, con scarso contenuto di innovazione e conoscenza, sottoutilizza o spreca il “capitale umano”, e non solo contribuisce all’impoverimento collettivo ma scoraggia l’investimento formativo. Il declino dei tassi di iscrizione all’università ne è la più preoccupante testimonianza, così come il rischio che a minori aspettative di benessere, per le nuovissime generazioni, si affianchi ora una minore quantità e peggiore qualità di sapere.

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