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La storia dei rom a Ponticelli

L'attacco al campo rom di Torino sulla base di accuse false ha molti precedenti storici, e uno di tre anni fa in cui fecero una brutta figura tutti

di Marco Imarisio

Post scriptum
(Dove si procede ad una dissertazione molto pignola ma necessaria, viste le conseguenze prodotte dall’episodio del quale si tratta)

Il ratto della bambina di Ponticelli non è mai stato tale. Ne sono convinti i giornalisti che accorrono sul posto quando si diffonde la notizia del tentato sequestro. Troppe cose che non tornano. Troppe testimonianze, rigorosamente anonime, che forniscono una ricostruzione dei fatti completamente diversa da quella che si va propagando. Sono voci raccolte al banco di un negozio di alimentari o ai tavolini del bar tabacchi, e con le voci non si costruisce un’altra verità.

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Passi per i giornalisti, si sa come siamo. Esercitiamo il dubbio, ogni tanto. Senza certezze non possiamo che scrivere quel che viene riferito dalle fonti ufficiali. Ma del fatto che nulla torni in questa storia è convinta anche la Polizia. Che dubita fin da subito della versione ufficiale, costruita sul racconto della madre della bambina e dei suoi familiari. Accanto a quella sugli autori degli incendi nei campi nomadi, la Digos di Napoli apre un’indagine contro ignoti per i reati di calunnia aggravata  e procurato allarme. Ad immaginare il nome e il volto degli ignoti non ci vuole poi moltissimo, le persone “assunte a sommarie informazioni” quel giorno non sono più di cinque.

È necessario dire che la Polizia va in cerca di qualcosa che non troverà. Nel suo rapporto conclusivo, consegnato all’autorità giudiziaria, continuerà ad esprimere “fortissimi dubbi” sulla “verosimiglianza” di quanto accaduto a Ponticelli. I familiari della bambina verranno “ascoltati” per un paio di mesi, nella speranza che le loro conversazioni private indichino i motivi di quella ch e agli investigatori sembra una messinscena, una “versione peggiorativa” di qualcosa che è avvenuto in quella casa. Dalle loro conversazioni non emergerà nulla di penalmente rilevante.

Il punto di partenza dell’indagine sta nei precedenti e nell’assoluta incongruenza dello svolgimento dei fatti. “Zero casi” registrati finora di rom che rapiscano bambini altrui. Una delle leggende metropolitane più diffuse non ha alcun riscontro nella realtà. Cose che si sanno, ma che a ribadirle sia l’organo incaricato di indagare sull’ultimo e più roboante caso – anche per le conseguenze che produce – fa comunque un certo effetto. “Parimenti, nessun sequestro di persona si è mai verificato all’interno di una bitazione privata, ma sempre fuori o nelle vicinanze”. Mai nell’appartamento. Anche questa osservazione ha una sua solidità. Andiamo avanti. Il bambino sequestrato è nipote di Ciro Martinelli detto “o’ cardinale”. È lui che ha fermato con la maniere forti la giovane rom, giunta ormai sul ciglio della strada. L’uomo è un personaggio molto noto nel quartiere, un punto di riferimento. Difficile anche solo immaginare che qualcuno possa rubare a casa sua.

La casa si trova in una piccola traversa di via Botteghelle. Una palazzina di tre piani, abitata completamente dalla famiglia Martinelli. I genitori della bambina, il padre e il fratello della madre della bimba. La giovane rom presunta autrice del ratto era già entrata almeno altre quattro volte in quello stabile, così sostengono le testimonianze dei vicini. “Probabilmente molte di più” chiosano gli ispettori della Digos. Lei stessa ha raccontata di esserci tornata spesso, “perché mi davano dei vestitini”. La porta di ingresso dell’appartamento è in cima ad una piccola rampa di scale. Si apre subito su un locale adibito a salone, dove si trovava la bimba. La madre ha dichiarato che si trovava nella stanza adiacente. La Polizia ha ipotizzato che sapesse della presenza della visitatrice, e fosse andata a prenderle dei vestitini da donarle.

Ipotesi della Polizia: la ragazza stava rubando qualcosa, e la donna se ne è accorta. Racconto della madre: non mi sono accorta di niente; ad un certo punto entro in salone e vedo che non c’è nessuno; la porta d’ingresso è socchiusa; la apro, e alla fine del pianerottolo vedo la Rom che si appresta a scendere le scale con in braccio la mia bimba. Il racconto sembra filare, ma per gli investigatori è inverosimile. Il pianerottolo è lungo non più di due metri. Entrare nel salone, avvicinarsi alla porta, aprirla. E’ un’operazione che richiede una trentina di secondi, soprattutto se eseguita senza fretta alcuna, come confermato dalla donna. Per farsi trovare in quel punto la sequestratrice, che aveva buone ragioni per andare di fretta, avrebbe dovuto invece camminare in modo esageratamente lento. Comunque: la donna raggiunge la rom, le strappa la bimba dalle braccia e comincia ad urlare. Gli strilli attirano il nonno, che si trova al piano di sotto. Un uomo dalla corporatura massiccia, alto e grosso. Ma quando si trova davanti la rom, su una scala stretta dove non vi sono vie di fuga, se la fa misteriosamente sfuggire. La riacciuffa in strada, dopo una fuga durata quasi 500 metri, praticamente un isolato con una “zingara” in fuga e nessuno che interviene. Il nonno picchia la rom. Un testimone dice di avergli chiesto se la giovane aveva tentato di “rubare la bambina”. “Ma quando mai”, è stata la riposta. Al momento di raccontare questa versione alla Polizia, dirà di essersi sbagliato, che aveva capito male. Così fallisce il ratto della bimba di Ponticelli. Non aveva grandi possibilità di riuscire, del resto. Una volta uscita dal palazzo, questa ragazza dai capelli e dalla carnagione scura, vestita come si vestono i rom, non molto popolari in zona come poi si vedrà, avrebbe dovuto percorrere un camminamento sempre affollato con una bimba bionda in braccio. Sarebbe dovuta passare davanti all’autolavaggio gestito dal nonno della bambina, a quell’ora pieno di persone che lavorano per lui e conoscono i suoi cari. E avrebbe dovuto proseguire per oltre un chilometro prima di raggiungere il campo nomadi più vicino.

L’indagine viene archiviata. Non ci sono prove che possano confutare la versione resa dalla madre e dal nonno della bimba. Non ci sono prove che riescano a confutare la traballante e improbabile versione dei fatti raccontata dalla madre e dal nonno della bimba. Non ci sono prove che non sia andata così, quindi è andata così. Da questo sillogismo è cominciata la stagione dell’intolleranza napoletana. Da una mezza verità, che somiglia molto ad una bugia intera.

(foto Lapresse)
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