Parlo di Venezia perché è una realtà che conosco, e perché un rettore giovane e determinato si sta molto adoperando per mettere Ca’ Foscari “al passo con i tempi”, promuovendo con slancio infaticabile – favorito anche da un cospicuo finanziamento premiale ottenuto dal Ministero – decine di iniziative pubbliche e attività di spettacolo (festival, spritz, notti bianche), decine di joint-ventures e di intese internazionali, nonché appuntamenti con le imprese per favorire l’ingresso degli studenti nel mondo del lavoro. Tutte belle cose, che danno visibilità e prestigio all’Ateneo, senza dubbio; e a questo si accompagna una politica di assunzioni di ricercatori a tempo determinato, una cura per la pulizia e il decoro degli spazi, una speciale attenzione alla valutazione della ricerca, e un incentivo affinché i docenti concorrano sempre più ai ricchi fondi europei per la ricerca, troppe volte lasciati scappar via. Questo attivismo ha portato con sé un certo grado di dirigismo (nuovo Statuto approvato a tempo di record, forte concentrazione dei poteri nelle mani del Rettore), una massiccia iniezione di retorica identitaria (continui messaggi sulla nostra “eccellenza”; “branding” e “marketing” come nei campus d’Oltreoceano; cerimonia di proclamazione “American-style” in Piazza San Marco con tanto di lancio dei cappellini; celebrazione del sistema-Venezia tramite accordi e sinergie con lo Studium Marcianum del potente patriarca Angelo Scola), e alcuni aggiustamenti che hanno destato perplessità (abbattimento delle retribuzioni per i contratti di insegnamento, che vengono indicizzate al numero di esami; qualche disordine nella gestione del personale tecnico-amministrativo; compressione delle sessioni di esami di profitto; atteggiamento quanto meno incerto sulla delicata vertenza dei lavoratori delle portinerie).
Ma a interessarmi qui è il principio del pecunia non olet: si incassano 80mila euro dalla Regione Veneto per una cattedra di dialettologia, incuranti della propaganda che Zaia vi sbandiera sopra; si firmano convenzioni con la Geox volte a creare la “Silicon Valley” veneta (la promessa era stata fatta al precedente Rettore già nel 2004), e intanto si concede all’impresa di aprire un negozio nel cortile storico dell’Università (del resto, Moretti Polegato è laureato ad honorem dell’Ateneo), senza curarsi di proteste o malumori; si accettano, per finanziare la neonata Scuola di Relazioni Internazionali, ben 400mila euro da un magnate saudita che recenti articoli hanno mostrato vicino al regime che proibisce la guida alle donne (il tutto senza pensare al rischio cui ci si espone: si ricorderà il caso dei finanziamenti di Saif Gheddafi alla London School of Economics). Né sarà forse del tutto casuale che nel board del think tank del Saudita (nominato di gran carriera “Honorary Fellow” di Ca’ Foscari) sieda un uomo dell’ENI, ente in cui lavora da anni (come presidente della Fondazione Mattei) anche il nostro rettore, pronto a invitare all’inaugurazione dell’anno accademico 2010 l’amico Paolo Scaroni (con Bisignani al seguito?). Non si dica che le lauree ad honorem non contano nulla, o che gli inviti non contano nulla: un Ateneo che già in passato è balzato agli onori delle cronache per scelte discutibili in tale materia dovrebbe forse adoperare la massima prudenza prima di nominare “Honorary Fellows” dal ricco portafoglio, sempre sperando che continuino ad essere respinte candidature come quella presentata dal Rettore nel Senato Accademico di aprile, e riguardante il mago Silvan, distintosi per alti meriti “nel campo dell’illusionismo e della prestidigitazione”.
Gli spunti di riflessione che ho presentati sono solo apparentemente slegati fra loro. L’idea che si va affermando è che l’Università italiana, benché drammaticamente sottofinanziata rispetto a qualsiasi parametro internazionale, costi troppo, e debba smettere la propria veste “pubblica” ed “egualitaria” per selezionare e indebitare gli studenti, e cercare danari ovunque essi si trovino. Io non so se in un altro Paese questa linea avrebbe qualche barlume di senso, o di equità: dubito che ne abbia in un Paese dove il tasso di corruzione è così elevato, dove la competizione è per definizione truccata, dove (i giornali ce ne offrono in questi giorni esempi preclari) tutto viene deciso sulla base di amicizie e conoscenze, dove le Università private nascono e vengono finanziate spesso per meri interessi clientelari, dove la classe dirigente imprenditoriale non può vantare alcuna maggiore “purezza” o credibilità rispetto a quella accademica, e dove la meritocrazia non è praticata anzitutto da chi la predica. Scaricare le conseguenze di questa palude sulle tasche degli studenti, sulla libertà della ricerca, e sull’immagine dei singoli Atenei mi sembra la scelta peggiore, e continuo pervicacemente ad augurarmi che un eventuale governo di sinistra voglia battere strade diverse.