Tre giorni a L’Aquila
Il direttore del Post è andato e ha capito meglio di cosa stiamo parlando (sempre meno)
di Luca Sofri
Se vai a L’Aquila che sono passati più di due anni dal terremoto, pensi due cose. Che hai aspettato troppo. E che qualunque cosa penserai, capirai, cercherai di spiegare tornando, l’avranno già pensata, capita e spiegata in tantissimi prima di te: ogni tua impressione sarà fragile, incerta. Sei combattuto, mentre ti guardi in giro e cominci a capire come stanno le cose (o almeno ti sembra), tra il desiderio di raccontarle e il timore di dire cose ingenue, superficiali, luoghicomuni. Possibile che nessuno te lo avesse spiegato? Ti rallegri delle persone che hai conosciuto e delle cose che ti hanno generosamente detto, e però ti mancano quelle che non hai incontrato e i loro pareri. Fai fatica, nelle tue umane necessità di certezze e sintesi, a capire se alla fine è tutto fermo o si fanno progressi; se l’emergenza è stata gestita male oppure bene; se Berlusconi lo vogliono menare o gli sono grati; se le case temporanee sono una cosa buona o no. E andrai via sapendo solo che le cose sono complicate e nessuna di queste questioni è chiara (più menare, comunque). Alla fine sei contento di essere andato, e anche di non aver mai formulato opinioni prima di esserci andato. E ti istruisci a raccontare solo quello che hai visto e sentito.
All’Aquila ho dormito in un albergo del centro, uno dei due aperti. Tutti gli altri ospiti erano sfollati, soprattutto anziani. Domenica mattina, mentre uscivo, quattro di loro stavano seguendo la messa alla tv nella piccola hall, con i rosari in mano. Sabato mattina, a colazione, due signore discutevano con rassegnato sarcasmo del fatto che per avere una casa “devi essere bulgaro, romeno o cinese” (zingaropoli attecchisce anche lì, solo per il fatto che i pochi stranieri regolarmente residenti all’Aquila sono stati trattati come gli altri residenti).
Per capire cosa sia successo all’Aquila io avevo bisogno soprattutto di camminarci, prenderle le misure, guardare le cartine, vedere le case. Quando vedi le foto fatte da altri o senti solo i racconti, non percepisci mai bene le dimensioni, né dei luoghi né dei disastri: quanto è grande l’area disabitata? Quante case sono crollate? Quanto è esteso il centro storico? Quanto la zona rossa? Quanto crollate sono le case?
L’Aquila ha un centro storico piuttosto grande, come molte altre città italiane, ed è “la città”: ovvero non il centro di un abitato più ampio, ma tutto quello che è l’Aquila, a cui si somma una periferia più moderna (suppergiù della stessa estensione) ma che faceva sempre capo al centro rispetto a quasi tutti i servizi. Un quadrato di tre chilometri per lato, più o meno: diciamo che per andare da un capo all’altro del centro si impiegano venti minuti di cammino. Come Pisa, ho pensato io, per un meccanismo banale e però utilissimo a capire: lo consiglio a tutti, come seconda pratica di comprensione. La prima è andare all’Aquila; la seconda è immaginare quello che si vede traslato sulla propria città, sostituire a ogni palazzo diroccato, crepato, imbracato, crollato, un edificio della propria città, a ogni luogo e a ogni piazza un luogo e una piazza, e immaginare così i propri centri, siano Ferrara, Siena, Siracusa, Udine o Mantova. Tutto diventa meno estraneo, non guardi più i guai degli altri ma ti ci trovi dentro.
Ecco, tutto questo centro storico è oggi deserto: non ci abita più nessuno, tutte le case sono inutilizzabili e quindi vuote. Sono quasi solo case e palazzi antichi, affacciati su vicoli e piazze, e nella quasi totalità hanno conservato in piedi le facciate ma con gravi lesioni: sono circondate da estese imbracature di assi di legno e travi di metallo, e all’interno sono spesso svuotate, diroccate, crollate e tenute insieme da chilometri di tubi innocenti. Almeno tre quarti del centro storico sono tuttora in “zona rossa” con transenne e avvisi che impediscono di accedere alle strade; il restante quarto – il corso e poche vie connesse – è stato riaperto al passeggio soprattutto di recente. Le persone ci vanno nel weekend, perché è il posto dove vivevano, e hanno riaperto (con permessi di agibilità temporanea) una ventina di negozi (vado a occhio), soprattutto sul corso.
L’effetto è stranissimo, naturalmente: non solo dal punto di vista estetico (ho fatto delle foto, aiutandomi con Hipstamatic per allontanare ancora un po’ questa sensazione di ingenuità). Soprattutto è un caso unico di persone che si aggirano in una città fantasma, in cui non abita nessuno. L’accesso e le strade sono controllate da coppie di giovani militari (quasi sempre un uomo e una donna), c’è un gran silenzio, ma quelli che passeggiano fanno come se fosse normale: spingono un passeggino, si fermano a prendere un caffè, comprano il giornale. Intorno a loro, è tutto imbracato e crepato. Immagino che agli aquilani il mio racconto sembri quello di un entomologo, o che siano infastiditi dalla descrizione di eccezionalità di ciò che per loro è del tutto normale (vivere col terremoto): però spero che come a me prima di questo weekend, a moltissime persone manchi ancora l’idea concreta di come sia oggi L’Aquila, e vorrei provare ad aiutarle, almeno fino a che non vanno a vedere.
Gli aquilani abitano altrove. O negli alberghi di tutto l’Abruzzo, o nelle due tipologie di case (i MAP e i “piano CASE”) descritti a suo tempo – tra gli altri – dagli eccellenti video di Zoro. Sono le case per gli sfollati costruite dopo il terremoto, stecche di condomini di due o tre piani disseminate in molte zone intorno alla città: i due tipi si distinguono soprattutto per la tecnologia antisismica più raffinata e affidabile del “CASE” (sulla neolingua del terremoto consiglio ancora di vedere Zoro), che però ha comportato costi molto alti che oggi sono criticatissimi da tutti. Sono comunque dei dormitori, dignitosi e funzionali, ma piccoli, pochi, e molto isolati.
Oppure abitano in altre sistemazioni in cui si sono organizzati. Una piccola parte della zona della città fuori dal centro storico è stata poco danneggiata ed è tornata abitata.
I numeri. Dopo il terremoto erano fuori casa i 71 mila aquilani e altri 30 mila dei paesi vicini (le disparità di esposizione e attenzione tra i vari centri sono tuttora oggetto di frustrazioni e risentimenti). Adesso 13 mila sono nel progetto CASE e 7 mila nei MAP. Duemila in affitti pagati dalla Protezione civile, 300 nelle caserme o in altre strutture comunali, 900 negli alberghi nel territorio regionale. Circa 13 mila persone usufruiscono del “contributo di autonoma sistemazione”, per cui ricevono 600 euro per nucleo familiare se si arrangiano da soli. Un totale di circa 36 mila persone che non vivono più a casa loro e sperano di tornarci, in tempi su cui si fanno poche illusioni: quelli immaginati dalla maggior parte di quelli con cui ho parlato sono sopra i cinque anni, più probabilmente dieci.
Non so cosa pensino gli aquilani, avrei voluto stare più a lungo: quelli con cui ho parlato io pensano che l’emergenza sia stata così drammatica che la gestione “autoritaria” fosse inevitabile e tutto sommato soddisfacente. Però pensano che l’apprezzato interventismo delle prime settimane si sia trasformato in una totale indifferenza da parte dello Stato e del Governo, e addirittura da un diffuso pensiero per cui “che diavolo vogliono ancora, gli aquilani?”. Gli aquilani vogliono soprattutto non essere abbandonati economicamente: lo Stato sta chiedendo loro il pagamento di tasse ordinarie in una situazione straordinaria e non sta incentivando in nessun modo la ripresa dell’economia. Poi vogliono una maggiore progettualità sulla ricostruzione: oggi all’Aquila non lavora nessun cantiere. È praticamente tutto fermo e l’impressione è che manchino ancora un progetto, una prospettiva.
Ho fatto grandi discussioni sulla questione del rinvio a giudizio dei membri della commissione Grandi Rischi. Fuori dall’Aquila se ne è parlato con grande superficialità, come se l’accusa fosse di non aver ascoltato le implausibili previsioni di maghi o rabdomanti. In realtà il punto è se gli elementi scientifici e le moltissime scosse delle settimana precedenti non suggerissero di stare più all’erta e prendere delle decisioni più prudenti. Io ho qualche resistenza nell’immaginare grandi sventatezze e impreparazioni in persone note e riconosciute come esperti e attenti scienziati, non amministratori inadeguati e superficiali. Le persone con cui ho parlato pensano che invece anche da questi – che sostengono oggi la responsabilità non fosse loro – siano venute alla vigilia del terremoto rassicurazioni eccessive e perentorie che hanno trattenuto molti aquilani dal dare retta ai loro timori: e pensano che di quelle rassicurazioni si debbano prendere la responsabilità in quanto autorità pubbliche che le hanno espresse. I racconti di persone che non sono andate via, non sono scese in strada, non hanno dormito in macchina, malgrado le scosse e le paure precedenti – perché gli era stato spiegato che non c’era nulla da temere – sono tantissimi.
Ho fatto delle foto, dicevo: sono anche queste solo un pezzetto della storia. Molte sono state scattate dentro al palazzo della prefettura, dove ho avuto la fortuna di poter entrare. Spero di aver condiviso con qualcuno quello che ho capito, in tre giorni all’Aquila. Ma date retta: andate a vedere, e a parlare con gli aquilani.