I numeri. Dopo il terremoto erano fuori casa i 71 mila aquilani e altri 30 mila dei paesi vicini (le disparità di esposizione e attenzione tra i vari centri sono tuttora oggetto di frustrazioni e risentimenti). Adesso 13 mila sono nel progetto CASE e 7 mila nei MAP. Duemila in affitti pagati dalla Protezione civile, 300 nelle caserme o in altre strutture comunali, 900 negli alberghi nel territorio regionale. Circa 13 mila persone usufruiscono del “contributo di autonoma sistemazione”, per cui ricevono 600 euro per nucleo familiare se si arrangiano da soli. Un totale di circa 36 mila persone che non vivono più a casa loro e sperano di tornarci, in tempi su cui si fanno poche illusioni: quelli immaginati dalla maggior parte di quelli con cui ho parlato sono sopra i cinque anni, più probabilmente dieci.
Non so cosa pensino gli aquilani, avrei voluto stare più a lungo: quelli con cui ho parlato io pensano che l’emergenza sia stata così drammatica che la gestione “autoritaria” fosse inevitabile e tutto sommato soddisfacente. Però pensano che l’apprezzato interventismo delle prime settimane si sia trasformato in una totale indifferenza da parte dello Stato e del Governo, e addirittura da un diffuso pensiero per cui “che diavolo vogliono ancora, gli aquilani?”. Gli aquilani vogliono soprattutto non essere abbandonati economicamente: lo Stato sta chiedendo loro il pagamento di tasse ordinarie in una situazione straordinaria e non sta incentivando in nessun modo la ripresa dell’economia. Poi vogliono una maggiore progettualità sulla ricostruzione: oggi all’Aquila non lavora nessun cantiere. È praticamente tutto fermo e l’impressione è che manchino ancora un progetto, una prospettiva.
Ho fatto grandi discussioni sulla questione del rinvio a giudizio dei membri della commissione Grandi Rischi. Fuori dall’Aquila se ne è parlato con grande superficialità, come se l’accusa fosse di non aver ascoltato le implausibili previsioni di maghi o rabdomanti. In realtà il punto è se gli elementi scientifici e le moltissime scosse delle settimana precedenti non suggerissero di stare più all’erta e prendere delle decisioni più prudenti. Io ho qualche resistenza nell’immaginare grandi sventatezze e impreparazioni in persone note e riconosciute come esperti e attenti scienziati, non amministratori inadeguati e superficiali. Le persone con cui ho parlato pensano che invece anche da questi – che sostengono oggi la responsabilità non fosse loro – siano venute alla vigilia del terremoto rassicurazioni eccessive e perentorie che hanno trattenuto molti aquilani dal dare retta ai loro timori: e pensano che di quelle rassicurazioni si debbano prendere la responsabilità in quanto autorità pubbliche che le hanno espresse. I racconti di persone che non sono andate via, non sono scese in strada, non hanno dormito in macchina, malgrado le scosse e le paure precedenti – perché gli era stato spiegato che non c’era nulla da temere – sono tantissimi.
Ho fatto delle foto, dicevo: sono anche queste solo un pezzetto della storia. Molte sono state scattate dentro al palazzo della prefettura, dove ho avuto la fortuna di poter entrare. Spero di aver condiviso con qualcuno quello che ho capito, in tre giorni all’Aquila. Ma date retta: andate a vedere, e a parlare con gli aquilani.