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Itabolario: Mafia (1865)

Massimo Arcangeli ha raccolto 150 storie dell'Italia unita, una per ogni anno: Itabolario. L'Italia unita in 150 parole (Carocci editore)

di Marcello Ravesi

Al di là dell’origine e dei percorsi semantici del termine, che restano ancora piuttosto nebbiosi, rimane il fatto fondamentale che dopo l’Unità «esso sia utilizzato da tutti […] a definire seppure confusamente un rapporto patologico tra politica, società e criminalità, e che dunque il momento genetico della nostra storia nazionale e statuale segni la prima, generica e molto ambigua percezione dell’esistenza di un problema di questo genere» (Lupo, 2004, p. 49). Essenziale è anche che, per quanto perfettamente acclimato nella lingua italiana, mafia non cessi di evocare il lato negativo della sicilianità. Fra i dialettismi entrati nell’italiano, del resto, il comparto “malavita ed emarginazione” è in buona parte appannaggio del Meridione, Sicilia in testa (cfr. Avolio, 1994, pp. 583-4). Il corredo lessicale di mafia offre all’italiano “in corso” un nutrito mannello di voci mutuate dal dialetto siciliano: cosca, che in origine indicava qualsiasi pianta a foglie raccolte (tipo carciofo) e poi per traslato è diventata “combriccola”; omertà e omertoso, dall’origine discussa (la base è forse lo sp. hombredad “virilità”); picciotto, che ha iniziato a diffondersi con la spedizione dei Mille, ma ancora con il significato di “ragazzotto, giovanotto arrogante”; pizzo “tangente”, che le organizzazioni mafiose impongono ai cittadini in cambio della “protezione” e dei “servizi pubblici” offerti. Per quanto alcuni di questi termini siano attestati in italiano fin dall’Ottocento sono effettivamente entrati nella lingua corrente piuttosto di recente: ancora abbastanza fresco pizzino, dalla cronaca della cattura (2006) del “boss dei boss”, Bernardo Provenzano. Anche pizzo, benché più stagionato, si può tuttavia definire un neologismo, dal momento che sui giornali all’inizio degli anni novanta compariva ancora tra virgolette. Era nato nel secondo Ottocento, forse nell’ambiente carcerario, poiché la mafia faceva pagare a chi entrava in carcere lu pizzu, «cioè il posto dove ci si corica, il posto letto: da capizzu, il capo del letto, il capezzale» (Beccaria, 2006, p. 84); a meno che la spiegazione non risieda in pizzu “becco degli uccelli” (cfr. in particolare fari vagnari u pizzu “far bagnare il becco”, accondiscendere a una modesta offerta, come poteva essere quella di un bicchiere di vino a compenso di un lavoro: Sgroi, 1995, pp. 287-8).

Col Novecento la mafia sbarca anche oltreoceano, dove si consolida il generico Cosa Nostra, pronunciato nel 1963 dal gangster, sotto processo, Joe Valachi, il quale rivela l’esistenza negli Stati Uniti di un’organizzazione segreta di origine siciliana e ne narra la storia (cfr. Lupo, 2002, pp. 250-5; Pezzino, 2003, pp. 102-4). Dalla Sicilia agli USA, dagli USA al mondo: è così che mafia diventa un italianismo planetario. Se PIZZA [1889], seguita da CIAO [1874], è la parola italiana più nota all’estero, mafia è a un’incollatura. In Italia solo all’altezza dei primi anni ottanta dello scorso secolo la società civile prende davvero coscienza del fenomeno e lo Stato comincia a reagire in maniera efficace. Alla mafia si oppone così l’antimafia, si parla di guerra alla mafia, oltre che di guerre di mafia (se intestine). A cavallo fra gli anni ottanta e novanta lo scontro si incrudelisce. Viene varata la legge che prevede con l’art. 41/bis il carcere duro per i mafiosi: la reazione è violentissima. Nel 1992, con la strage di Capaci e, a ruota, di via d’Amelio, s’inaugura la stagione dello stragismo e quel poco di consenso sociale di cui il mafioso ancora gode s’incrina definitivamente. Il popolo della legalità comincia a scendere in piazza e la frase “la mafia non esiste” diventa fonte di sincera indignazione. Per quanto indebolita sul territorio – ma fino a un certo punto – la mafia (cosa e parola) si espande proteiforme, traveste realtà che nulla hanno a che vedere con la sua antica origine. Si muove sulla carta geografica: mafia cinese, mafia del Brenta, mafia albanese ecc.; oppure si presta a un uso sovraesteso annidandosi in unità polirematiche che designano generici gruppi clientelari: mafia politica, mafia della sanità, mafia del cancro, mafia del ponte, mafia del salotto buono, mafie accademiche ecc. Su quest’ultimo terreno, tuttavia, a partire dall’inchiesta di Mani Pulite (TANGENTOPOLI [1989]), il meccanismo ha incontrato la concorrenza spietata del pervasivo suffisso -poli (cfr. Arcangeli, 2008b); così, a proposito del caso Moggi & Co., non si parla tanto di mafia del pallone quanto piuttosto di calciopoli o piedi puliti, e persino di una paradossale mafiopoli del calcio che mette insieme capra e cavoli. Ma le risorse della mafia sono infinite: si fa suffissoide e diventa ecomafia, zoomafia e, recentissimo, archeomafia.

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