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Itabolario: Mafia (1865)

Massimo Arcangeli ha raccolto 150 storie dell'Italia unita, una per ogni anno: Itabolario. L'Italia unita in 150 parole (Carocci editore)

di Marcello Ravesi

È assai probabile che a far scivolare mafiusu verso il nuovo e più comune significato deteriore – oltreché a dare al termine e al fenomeno pubblicità nazionale – abbia contribuito lo straordinario successo del lavoro teatrale I mafiusi di la Vicarìa, scritto dal maestro elementare Gaspare Mosca in collaborazione con l’attore Giuseppe Rizzotto, rappresentato dapprima a Palermo nel 1863 e poi replicato numerose volte in molte città del Regno (cfr. Novacco, 1959, pp. 208-9; Loschiavo, 1962, dove si può leggere il testo con la traduzione italiana a fronte: pp. 211-359; Barbina, 1970, pp. 42-3; Sgroi, 1994, pp. 219-21; Leone, 2004, pp. 372-3). L’opera dialettale, ambientata in un’epoca di poco anteriore all’impresa garibaldina (1854), aveva messo in scena la vita dei detenuti in un’ala delle carceri nuove di Palermo (Vicarìa nova), altrimenti conosciute come quelle dell’Ucciardone, descrivendo usi, rituali e gergo della malavita associata, la sucività “società” (si badi che nel testo l’organizzazione non è mai indicata col termine mafia, bensì con camorra o, appunto, sucività). Per via teatrale, dunque, e non senza indulgenza, si ufficializza e si rende nota all’opinione pubblica italiana l’esistenza di un’organizzazione retta da vincoli di tipo familistico (le famiglie) che si sostituisce alle istituzioni statali. I sodali condividono un codice culturale in cui l’arroganza e l’ostentazione della superiorità sono valori positivi, specie nella Sicilia postunitaria, disillusa e rancorosa nei confronti del governo centrale (in parte a ragione; un bel quadro a tinte acide della situazione è dipinto da Camilleri, 1995). Così nasce lo stereotipo romantico – giunto fino a noi quasi intatto – del “mafioso aureolato” (cfr. Mazzamuto, 1989), sprezzante del pericolo, determinato e senza scrupoli, ma degno di rispetto. In tutto ciò non va sottovalutata la «funzione creatrice della parola» nel suo farsi «marchio di qualità» (Tessitore, 1997, p. 85); osserva infatti, lucidamente, uno dei primi studiosi del fenomeno mafioso: «mafia ha trovata pronta una classe di violenti e di facinorosi che non aspettava altro che un sostantivo che l’indicasse, ed alla quale i suoi caratteri e la sua importanza speciale nella società siciliana davano diritto ad un nome diverso da quello dei volgari malfattori di altri paesi» (Franchetti, 2000, pp. 103 s.).

Quanto all’etimologia di mafia, le sicurezze sono ben poche. Stando all’ipotesi più nota, già ottocentesca, si tratterebbe di un arabismo del dialetto siciliano: da mahjas “millanteria” (cfr. Avolio, 1882, p. 45, rispolverato da Trovato, 1998); sennonché l’attestazione tarda e una trafila fonetica anomala hanno suscitato qualche perplessità (per altre ipotesi dall’arabo cfr. Novacco, 1959, p. 207). L’incertezza ha dato la stura a uno sciupio di spiegazioni etimologiche; fino alle più bizzarre, come quelle che vanno ricercando possibili acronimie (m.a.f.i.a “morte ai francesi Italia anela”, da ricollegare ai Vespri siciliani, o, peggio ancora, “Mazzini autorizza furti incendi avvelenamenti”). Alcuni studiosi hanno pensato a incroci di parole siciliane: supponendo la derivazione inversa di mafia dall’aggettivo maf(f)iusu (con originario senso deteriore), a sua volta ircocervo rifatto su marfusu “furbo, ingannatore”, marfiuni “marpione”, smurfiusu “smorfioso, sdegnoso” (Lo Monaco, 1990); oppure proponendo la contaminazione di magnusu “pomposo” con smurfiusu o con fiura “(bella) figura”, da cui mafiusu (col senso primario di “elegante e borioso” ed evoluzione semantica verso il senso deteriore) e il deaggettivale mafia (cfr. Leone, 1991, 2002 e 2004). Altri hanno risolto la questione ricorrendo alla radice fonosimbolica maff- “gonfio” (cfr. Lurati, 1998, pp. 217 ss.), magari riconducendo la base onomatopeica -maf- “gonfio, grasso, grosso, pesante” a una matrice africana: Maffìa (nome di un’isola della riviera tanzaniana). Di qui, con una spinta in direzioni diverse, il sema sarebbe penetrato in Europa attraverso rotte commerciali arabe (ar. maifa’a “eminenza” e “luogo di qualche spessore”, che sostiene anche il senso di “personaggio di un certo spicco”); se così fosse mafia avrebbe affinità filogenetiche con gli innumerevoli vocaboli delle lingue europee (romanze e non) variamente caratterizzate da questo tratto semantico, persino con la Marfisa dell’Ariosto (cfr. Natella, 2002). C’è poi chi ha posto la nascita della parola alla fine del Settecento, collegandola al marchio d’infamia imposto ai criminali nell’antico regime: nel linguaggio popolare la voce dotta infamia sarebbe diventata ’nfamia o *famia (con aferesi vocalica o sillabica) e poi mafia (con metatesi, non infrequente in siciliano); il significato più antico sarebbe quindi quello delittuoso, e le accezioni di “eleganza, sfoggio e sim.” sarebbero invece secondarie (cfr. Spagnolo, 2006). Da ultimo una suggestiva teoria ha rintracciato l’origine della parola (e del fenomeno) nella cultura italica a base economica pastorale cosiddetta appenninica, affermatasi in tutta l’Italia centro-meridionale nel II millennio a.C. e declinata nel corso del successivo sotto la pressione dell’innovatrice e vincente civiltà latina. La mafia sarebbe dunque una forma di rivendicazione del potere territoriale perduto da parte di una élite spodestata di pastori-guerrieri italici contro le nuove specificazioni del potere “ufficiale” avvicendatesi nei secoli. La base della parola – che coerentemente non sarebbe autoctona della Sicilia, ma avrebbe avuto il suo focolaio d’irradiazione nel Lazio sannita e nelle regioni abruzzesi contigue – sarebbe una formazione osco-umbra *(a)mafla (con aferesi), affine a un lat. *AMABULA, dalla medesima radice di AMARE e AMICUS e semanticamente equiparabile ad AMICITIA e al lat. pop. *AMICITAS (cfr. Alinei, 2007); avremmo a che fare, in buona sostanza, con gli “amici degli amici”. Il pregio di questa ricostruzione è di far emergere dalla medesima humus italica e pastorale anche le cugine: la camorra, da morra “gregge di pecore” – ampiamente diffuso nei dialetti centro-meridionali –, col prefisso rafforzativo cata- abbreviato in ca- (quindi ca(ta)morra “interesse comune di una comunità pastorale”; l’etimologia corrente si rifà però al napol. morra “torma, banda”: cfr. Giudici, 1981); la ’ndrangheta, risultante dalla composizione del prefisso intra/indra “dentro, all’interno, in fondo” e di *anghita dal lat. *AMIC(I)TAS, ma con particolarità osco-umbre, nel senso finale di “unione stretta e profonda fra amici o alleati” (l’opinione invalsa è però che il termine venga dal gr. ‘ανδραγαθία “coraggio, valore in guerra, virtù”: cfr. Martino, 1978 e 1988).

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