Invece la storia non era compiuta e l’11 settembre l’ha in ogni caso riaperta, sfigurandola. Ho sempre considerato, fin dal primo giorno, l’attacco alle Torri come un attacco non solo all’America ma alla democrazia, in questo senso all’Occidente intero, dunque qualcosa che ci interpellava direttamente. Ecco perché non bastava e non basta dire «siamo tutti americani» (la compassione), ma era giusto e necessario dire «siamo tutti occidentali», cioè assumere la responsabilità di una condivisione. Se vogliamo dare un nome alla fase che apre il secolo col volo sulle Torri, dobbiamo parlare di qualcosa che non avevamo previsto e che cambia l’intero paradigma costruito dopo la caduta del Muro: l’attacco alla democrazia. Diciamolo così: la cultura politico-istituzionale superstite del Novecento, che credevamo pacificamente egemone, è sfidata dopo aver vinto e noi vediamo che il vecchio secolo – altro che breve! – non riesce a chiudersi, non riconosce il saldo: o che il nuovo non accetta il suo lascito più importante. Guai dunque a chiederci per chi suona la campana. Davanti agli attentati neppure la comprovata autonomia dei diversi terrorismi può impedirci di fare sequenza, di ragionare su un effetto ogni volta globale perché dovuto a una sorta di coinvolgimento di sistema, alla sensazione di far parte dello stesso mondo scelto a bersaglio da un altro mondo che non consideravamo nemico ma ci sta braccando mentre nega valore – ecco la scoperta inaudita – ai nostri valori più alti e ai nostri gesti minimi. Questo coinvolgimento ci dice che si colpiscono gli Stati, si uccidono gli uomini e le donne, ma la sfida è alla democrazia, un sistema di istituzioni, regole e diritti che a noi sembrava risolto nella sua capacità di garantire la convivenza, e che era comunque il portato delle nostre storie, addirittura il superamento dei nostri errori, e faticosamente si era imposto. La condivisione nasce dalla minaccia a questa costruzione politico-istituzionale-sociale che è insieme il risultato di lotte e conquiste e un sistema condiviso di garanzie, fino a diventare il vero sistema di credenze dell’Occidente, la vera religione secolarizzata.
GZ: Dici cose terribili che devono scuotere le nostre sicurezze. Non perché noi stessi si debba ripudiare la democrazia, una volta che sia caduta l’illusione sulle sue universali virtù benefiche. Io credo all’universalità dei valori democratici ma, proprio per questo, credo anche che «la nostra democrazia» debba sottoporsi a molte considerazioni autocritiche perché sia capace di generalizzarsi vincendo le diffidenze. Quando chiedi come sia possibile che «ragazzi nati a Londra, cresciuti nella tolleranza della civiltà europea, abituati al cosmopolitismo metropolitano e al multiculturalismo quotidiano, scelgano di inabissarsi nel loro passato familiare retrocedendo a una cultura di morte piuttosto di vivere la libertà quotidiana, che molto semplicemente ti permette di studiare, di lavorare, di scegliere l’ultimo romanzo in libreria, di parlare con una ragazza al pub, di andare a vedere l’Arsenal in curva» poni una domanda per noi capitale, alla quale non siamo capaci di dare risposta perché partiamo dal nostro punto di vista. I ragazzi che tu descrivi non sono forse la copia dei figli nostri. Dal nostro punto di vista possiamo solo dire: non comprendiamo. Forse però dovremmo cercare di capire qual è lo sfondo di questo modo di vivere e quali le implicazioni per loro. Lì forse c’è la risposta, una risposta che, a sua volta, pone a noi occidentali non poche domande.
EM: Ma tutto questo ci pone di fronte alla scoperta improvvisa del relativismo di un valore per noi assoluto come la democrazia, così relativa da poter essere trasformata da qualcuno in insegna negativa, con cui si marchia quella parte del mondo dove si vuole portare la morte. Questo limite dell’universalismo democratico (Huntington ci aveva già avvertiti), questo ecumenismo democratico che si rivela impossibile, ha però un contraltare: l’attacco ad un Paese democratico diventa universale, mondializza la minaccia, dunque rende la democrazia sistema o addirittura civiltà comune, ci fa capire che siamo cittadini di singoli Stati, di un’Europa che non riesce a compiersi, ma soprattutto di un’unica civiltà democratica da difendere. E qui, in questo contesto, si capisce ancora di più quel che dicevamo prima: l’obbligo per la democrazia di difendersi restando se stessa, senza lasciarsi deformare dalla tentazione dell’emergenza. Non solo: se le democrazie e il loro popolo si sentono «sistema» davanti alle stragi e alla sequenza di attentati, devono ricordare che quel sistema esiste nella realtà e si chiama Occidente, perché questo è il deposito e il risultato dei nostri valori, e per questo viene attaccato e minacciato. Come al-Qaeda è sempre più il preambolo comune di terrorismi tra loro distinti, che sfidano la democrazia occidentale vedendola come una cosa sola, così la democrazia è il carattere fondamentale delle due civiltà politiche in cui viviamo, quella europea e quella americana. Ne consegue qualche obbligo. Gli Stati Uniti non possono procedere da soli come hanno fatto per arrivare in Iraq, dividendo l’Europa per usare i singoli Stati invece dell’insieme, interpretando l’Occidente come un sistema di delega per la loro sovranità egemone: anche se fare i conti con l’Europa significa fare i conti con il diritto internazionale, con la politica e non solo con la forza, con gli organismi di garanzia e il loro sigillo di legalità. Dall’altra parte l’Europa deve sapere che se il bersaglio è la democrazia occidentale nel suo insieme, non si può lasciare l’America sola, perché l’11 settembre interpella tutti, e attende anche da noi una risposta.
Ezio Mauro, 62 anni, piemontese, è direttore di Repubblica dal 1996. Gustavo Zagrebelsky, giurista ed ex presidente della Corte Costituzionale, ha 68 anni de è anche lui piemontese. Il loro libro-conversazione si chiama “La felicità della democrazia” (Laterza).