EM: L’impiccagione ripugna alla democrazia, anche quando è in guerra. Ma in Iraq, stavo dicendo, non c’era la connessione evidente e provata con la lotta al terrorismo, con l’attacco mirato ad al-Qaeda, ed era addirittura fasulla la connessione con le armi speciali da distruggere. Per queste ragioni la democrazia ha danneggiato se stessa, perché si è rivelata ideologica. Ha dovuto ricorrere alla menzogna verso i suoi cittadini per poter essere ideologica. Una colpa rilevante, perché le democrazie hanno parecchi doveri in più rispetto ad altri regimi, e anche nel difendersi devono giustificare ciò che fanno, misurando l’azione alla reazione, i mezzi ai fini. Questo significa che non possono – non devono – inventare giustificazioni pretestuose o di comodo ad azioni che non si giustificano da sé. L’ho scritto allora su «Repubblica», ne sono convinto anche oggi: a differenza di quanto è successo a Washington, le democrazie non devono invocare il sostegno del Paese alle scelte più controverse dei governi mistificando i dati di conoscenza e gli elementi di valutazione, perché un consenso costruito su un artificio menzognero inficia lo stesso principio di legittimità del potere, inganna l’opinione dei cittadini, tradisce la fiducia tra elettori ed eletti che sta alla base della rappresentanza. Con il risultato che tutto il meccanismo della deliberazione finisce per essere deviato, e il discorso pubblico – che lega insieme governanti e governati – diventa contraffatto, cioè infedele.
GZ: Sì, ma purtroppo tenere la guerra sotto il controllo democratico e quindi sotto la legge della verità è un’impresa difficilissima. La guerra è il tempo della propaganda, non della verità. E la propaganda usa la menzogna. L’opinione pubblica è corriva, in questi casi. Sembra avere interiorizzata la scusabilità della menzogna, averla giustificata. Bill Clinton è stato crocefisso per le bugie dette nella sua storia boccaccesca. Bush e Blair, per la guerra costruita su prove falsificate, no. Nessuno ne parla più. Eppure, anche dal punto di vista del diritto internazionale ci sarebbe molto da dire. La questione è chiusa non in diritto, ma in fatto. Hanno vinto la guerra, ma se l’avessero persa, loro, i loro consiglieri e gli affaristi che li spingevano, sarebbero davanti a una Corte penale internazionale.
EM: Vedi l’importanza dei vincoli? Com’è infinitamente più difficile procedere per un governo che vive e opera nel sistema democratico? Naturalmente molti diranno che questi sono solo formalismi, pastoie democratiche, e che la democrazia vive nella decisione e nell’immediatezza del comando, altrimenti si corrompe nei mille passaggi che bloccano la spada quando deve essere sguainata, limitandone la forza. Ma questi obblighi che qualcuno chiama formalismi, sono in realtà un sistema di garanzia continua, l’unica garanzia che possiamo darci e che per rimanere tale non contempla eccezione. La democrazia è per questo lenta, faticosa e grigia? Ma è grazie a questo sistema di garanzia e ai suoi passaggi obbligati che noi siamo liberi mentre viviamo, riuniamo i parlamenti, mandiamo a scuola i nostri bambini, viaggiamo, preghiamo e leggiamo. La fluidità normale della nostra esistenza, che è poi la naturale velocità della libertà, è frutto e merito di quei passaggi, di quelle regole, di quegli obblighi che noi chiamiamo democratici, perché sono l’unico sistema che consente ai cittadini di partecipare al controllo, di prendere parte, di restare in gioco.
GZ: Sì, è verissimo. La democrazia è contraria ai tempi stretti. Deve darsi i suoi tempi, i tempi della deliberazione che devono contemplare informazione, discussione e controlli sulle decisioni. In questo, la democrazia è forte quando può distendersi; è debole quando si rattrappisce. Bisogna accettare la sfida. Abbreviandosi i tempi, è naturale che ci si debba maggiormente fidare di coloro cui si affidano le decisioni, e quali decisioni! Proprio per la loro irrevocabilità, dobbiamo sapere fino in fondo in quali mani ci mettiamo, quali interessi le muovono, se ci sono altri soggetti, invisibili, che le manovrano. C’è più bisogno di verità e meno di messe in scena. Il contrario di quel che abbiamo sotto gli occhi e che spesso è un trompe-l’oeil: non riusciamo a rivelare soprattutto quando la rivelazione sarebbe più importante.
EM: C’è però ancora un punto che mi sta molto a cuore, ed è il legame tra la democrazia e l’Occidente. Dico questo non in termini esclusivi naturalmente. Intendo dire che la democrazia così come la penso – dei diritti e delle istituzioni – è intanto la forma dell’Occidente, anche quando non lo sa. Dovrebbe intanto essere ancora più chiaro oggi, quando è finito il lunghissimo dopoguerra che ha confiscato il concetto di Occidente nella categoria riduttiva dell’opposizione (o del baluardo) contro il «nemico ereditario», le Russie ideologizzate in sistema totalitario dalla corazza comunista dell’impero sovietico. Io credo e spero che noi possiamo e dobbiamo considerarci occidentali non più per differenza, ma per coscienza: siamo la terra appunto della democrazia dei diritti, della democrazia delle istituzioni, non so dirlo altrimenti, né vorrei. Nient’altro che questo, ma è tantissimo.
E guarda che l’11 settembre ci impone questa consapevolezza che sembriamo scordarci, scordandoci di noi stessi. Voglio dire che l’11 settembre ci pone in forma drammatica il tema della democrazia. Possiamo arrivarci anche in altro modo, e il risultato è identico. Perché l’11 settembre e i suoi seguiti diversi ma coerenti come gli attentati di Londra e Madrid ci costringono finalmente a domandarci: chi siamo, oggi? Nel mondo in cui stiamo entrando noi chi siamo davvero, i vincitori tecnologici, economici e culturali o le vittime sacrificali designate? Capisco che è una domanda da finesecolo disorientato, più che da inizio di un nuovo millennio. Ma fammela ripetere. Non avevamo fatto davvero i conti, appagati dall’esito apparente del Novecento, ed eccoci qui, con il secolo che si è aperto nella tragedia mostrandoci che ciò di cui stiamo vivendo è proprio ciò di cui stiamo morendo, ciò di cui fatichiamo a comprendere il valore nelle vecchie categorie della nostra cultura politica sfidata nella sua essenza: l’attacco è infatti alla quotidiana normalità civile, alla semplice democrazia fatta dei gesti di ogni giorno, pubblici e privati, all’ordinaria libertà nella forma simbolica ma viva di due grattacieli a New York, un treno a Madrid, una scuola a Beslan in Ossezia. Dovevamo capire subito che lo scarto tra noi e gli attentatori non era soltanto politico e criminale, ma culturale, dovevamo capire che quell’assalto poteva compiersi in un modo solo, cioè con la semplicità dell’impossibile. Voglio dire che il terrorismo poteva riuscire solo se pensava ciò che la cultura democratica non riesce a concepire. E infatti quegli aerei volati sulle Torri gemelle sono arrivati a centrare il bersaglio proprio perché hanno volato sotto la linea d’ombra del pensiero occidentale che è un pensiero democratico, fuori non solo dai vincoli morali di ogni atto politico, ma addirittura dal calcolo cartesiano del rapporto tra costi e benefici, con la vita del kamikaze che non conta nulla rispetto al martirio promesso col fanatismo della strage.
GZ: Cerco di seguire la tua vivida esposizione. Dici diverse cose. Innanzitutto, dici che oggi è il tempo di essere democratici non per differenza, ma per convinzione. Questo significa, mi pare, esserlo non usando la democrazia come strumento ideologico per condurre guerre o alimentare ideologicamente le contrapposizioni, ma proponendola senza secondi fini come formula di convivenza, aperta a tutti. Intendo bene?
EM: Mi pare di sì. Non sei d’accordo?