I carabinieri attaccano sbucando da una via laterale. In modo improvviso, contrario alle regole di ingaggio dell’ordine pubblico. I manuali del Viminale proibiscono espressamente ogni carica che possa spezzare un corteo. Via Tolemaide è il perno su cui girano le sorti del G8, e del movimento No global. È quella decisione senza padri il vero mistero di Genova. La chiusura a riccio dell’Arma è stata immediata, la difesa corporativa molto più efficace di quella della polizia, che si troverà a essere giudicata per le violenze di Bolzaneto e della Diaz. Nessun carabiniere ha mai pagato per quell’attacco. Nessuno l’ha mai spiegato, lasciando un vuoto che verrà riempito soltanto da congetture, ipotesi e sospetti, ognuno ci vedrà dentro quel che vuole.
A cominciare dalla visita alla caserma San Giuliano del vicepresidente del Consiglio Gianfranco Fini e del ministro della Giustizia Roberto Castelli, avvenuta mentre le telecamere trasmettevano in mondovisione la furia dei Black Bloc e l’inerzia delle forze dell’ordine. Una visita non prevista da alcun cerimoniale, non annunciata da alcun “elenco degli impegni ufficiali”, il bollettino che ogni giorno scandisce gli impegni anche minimi delle più alte cariche dello stato. Neppure logica, in quanto il titolare sarebbe stato il ministro della Difesa, dal quale dipende l’Arma. Mai spiegata dai diretti interessati, a parte le banalità di circostanza.
Le poche risposte alla domanda rivolta al capitano sulle scale della procura sono nascoste in qualche faldone giudiziario. Non esiste il reato di decisione sciagurata, neppure quello di cambio precipitoso – forse obbligato – di strategia. La carica di via Tolemaide è sempre rimasta all’ombra di due diversi procedimenti. L’inchiesta sulla morte di Carlo Giuliani, e soprattutto il processo ai manifestanti accusati di devastazione e saccheggio per gli scontri del 20 luglio, che resta l’unico vero tentativo di ricostruire quel passaggio così importante del G8. Ciò che emerge, però, è solo un quadro di inefficienza e confusione. La riproduzione dell’eterno conflitto tra don Camillo e Peppone, ovvero polizia e carabinieri, giocato sulla pelle degli altri.
L’ambiguità nei rapporti tra i due rami delle forze dell’ordine è risolta con un compromesso burocratico. L’ordine pubblico è gestito dalla polizia, che dirige anche i battaglioni dei carabinieri. Ma le disposizioni provenienti dalla questura vengono trasmesse all’ufficiale presente in sala crisi, il quale telefona alla centrale operativa dei carabinieri che può così comunicare ai militari ordini decisi da altri, ma come se fossero suoi. Ogni scelta fatta in quei giorni viaggia su messaggi radio in duplice copia, agli interessati e ai loro capi. Continuamente soggetti a modifiche, postille, chiarimenti. Un meccanismo farraginoso che finirà per stritolare chi si trova impigliato nell’ingranaggio.
La spiegazione ufficiale, accreditata e forse incredibile, sarebbe quella di un reparto di carabinieri che deve andare a Marassi per fermare i Black Bloc. Il funzionario che li guida ha perso la cartina di Genova fornita dalla questura. Decide allora di andare verso il tunnel che da via Tolemaide porta alla ferrovia perché è l’unico punto di riferimento del quale ha memoria, come i turisti a Milano con piazza del Duomo, e finisce per trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.
La centrale operativa della polizia non può dirgli cosa fare. Non riesce a comunicare con i reparti, non riesce a notificare le sue decisioni al centro di controllo dell’Arma. Il battaglione viene preso a sassate da un gruppo di Black Bloc e finisce per attaccare l’altro corteo, che non c’entra nulla. Alle 14.58 dalla centrale operativa della questura si sentono le bestemmie del responsabile della sala radio, il dirigente genovese che doveva orchestrare i vari interventi. “Nooo… hanno caricato le Tute bianche porco giuda! I carabinieri dovevano andare dall’altra parte e non in via Tolemaide, che cazzo ci fanno lì… e adesso hanno attaccato le Tute bianche.” Quasi in contemporanea il poliziotto responsabile del corteo chiede informazioni. “Scusa, ma cosa ci fanno i carabinieri in fondo a via Tolemaide? Ma non dovevano andare dall’altra parte? Li dovete togliere, altrimenti si crea un tappo.” Nessuna risposta.
A poca distanza c’è un capitano dei carabinieri che freme per andare “in prima linea”, dice proprio così parlando via radio. Litiga con i funzionari della polizia. Vuole andare all’attacco e chiama i suoi per chiedere il permesso. “Siamo in settantadue, incazzati come bombe, mandateci a lavorare, per Dio. Ci avevano detto che eravamo qui per le emergenze, se non è emergenza questa, è da bruciarli tutti, siamo qui a non fare un cazzo. Io li ammazzo, odio più la polizia dei No global, sarei contento se gli dessero fuoco a tutta la questura, maledetti bastardi.” Nei mesi prima del G8 hanno litigato, sedendosi al tavolo come capi indiani di tribù diverse. Per presentarsi come sempre divisi anche al loro appuntamento più importante. A Genova nessuno poteva permettersi di giocare un ruolo da comprimario.
Nello spazio di pochi minuti saltano tutte le finzioni. Emergono umori finora nascosti. Ancora alle 14, la centrale operativa, quando riesce a far funzionare radio e auricolari, impartisce ordini di questo tenore: “Lascia stare i Black Bloc, stai sul corteo delle Tute bianche, sono buoni, tu tieni calmi i tuoi e non ci saranno problemi”. Un’ora dopo il buonsenso sparisce, sostituito da sgorghi di bile forse più sinceri. Al contingente di cento carabinieri inviato a proteggere il battaglione che sta caricando in via Tolemaide arriva il seguente ordine: “Confermo che devi scendere per corso Gastaldi con tutti i tuoi uomini, però devi fare una cosa veloce e devi massacrare. Capito? Devi massacrare”.
Questi sono i fatti che portano alla morte di Carlo Giuliani. Uno strano impasto di imperizia, caos organizzativo, rivalità tra corpi dello stato, odio che ribolliva nella pancia dei suoi uomini. Uno ha sbagliato strada, un altro si è arrabbiato ma non poteva farci nulla, le Tute bianche hanno reagito. Un ragazzo di ventitré anni non è tornato a casa.
Quando depone al processo, il colonnello dei carabinieri protagonista della carica di via Tolemaide è interrotto dal presidente del tribunale. “Da cittadino le chiedo, proprio come fatto storico, da parte sua non c’è mai stato il dubbio di aver commesso degli errori nella gestione di quei momenti?” Il colonnello farfuglia, balbetta qualcosa di incomprensibile nel microfono. Allora il giudice cambia la sua domanda: “L’Arma dei carabinieri non ha mai ritenuto necessario fare una sua ricostruzione dei fatti?”. Il colonnello si schiarisce la gola. E poi risponde. “No.”
Queste pagine sono tratte da “La ferita – Il sogno infranto dei no global italiani“, il libro di Marco Imarisio dedicato al G8 di Genova del 2001 che esce oggi per Feltrinelli. Marco Imarisio (Milano, 1967) è giornalista ed inviato del Corriere della Sera, per cui seguì le manifestazioni di Genova, occupandosi poi delle inchieste e dei processi relativi ai pestaggi della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto.