All’uscita ripercorro il vialetto a piedi. Quando sono a metà sento il rumore di un motorino dietro di me e poi vengo sfiorato da un sasso. “Sei solo una merda.” Lo scooter si ferma qualche metro davanti a me. Il poliziotto calmo è alla guida. Scende, parla con il suo amico, gli punta il dito in faccia intimandogli di non muoversi e poi si dirige verso di me. “Ti chiedo ancora scusa, queste cose non devono succedere. Comunque tu la pensi, non doveva fare quella scena, mi vergogno per lui.” È un uomo alto, dai capelli tagliati corti, tiene un borsello a tracolla. Parliamo, ci scambiamo qualche impressione. “Che disastro,” dico io, non mi viene in mente nulla di meglio. “Che disastro,” replica lui.
Il poliziotto sembra davvero dispiaciuto, non solo per l’episodio all’interno dello stanzone. “Adesso ci odieranno tutti,” dice. E annuisce, come se non avesse bisogno di replica. Come ti chiami, cosa fai? Prima dei saluti frettolosi, perché dal motorino l’amico lo sta chiamando con insistenza, “Non perdere tempo con quella testa di cazzo”, ci scambiamo i nomi e le professioni. Lui vive a Roma, fa ordine pubblico. Ogni domenica allo stadio. È un agente del settimo reparto mobile, il suo capo si chiama Vincenzo Canterini. “È una gran brava persona,” assicura.
Le voci dentro
“Perché l’avete fatto?” La faccia del capitano è bianca come la parete sulla quale sta appoggiato con la schiena. Domenica mattina, è il 21 luglio.
Il tribunale di Genova è sbarrato. Dentro ci deve pur essere qualcuno. È stato ammazzato un ragazzo di ventitré anni, è stata aperta un’inchiesta. Il magistrato è subito andato alla camera mortuaria per vedere il corpo e la ferita d’arma da fuoco sotto lo zigomo sinistro. I giornalisti entrano nei meandri del tribunale, passano dal sotterraneo, risalgono le scale interne, arrivano al nono piano, quello degli uffici della procura. Sul pianerottolo in cima all’ultima rampa vedono l’ufficiale in divisa, come se dovesse andare a una celebrazione. Invece ha solo consegnato una relazione di servizio al magistrato. In quei giorni è a Genova perché il comando generale gli ha affidato un ruolo di responsabilità, ufficiale di collegamento tra la centrale operativa dell’Arma e la questura dove c’è il quartier generale della polizia. È un carabiniere famoso per aver arrestato un noto assassino. Uno dei pochi ufficiali al quale, per via della celebrità acquisita, viene concesso ogni tanto di parlare con la stampa.
Ma oggi non ci sono parole. C’è la sua faccia. Terrea, spaventata. Gli occhi bassi che evitano di incrociare lo sguardo con chi gli chiede il perché di quella decisione. “Cosa avete fatto?” Il capitano non vuole rispondere. “Non posso dirlo.” Si mette il cappello in testa e chiede, anzi ordina, di lasciarlo passare. Due anni dopo si congederà dall’Arma e verrà assunto come dirigente in un’azienda privata. Non ha mai parlato di quel che accadde a Genova.
Nessuno ne risponderà, negli anni a venire. Eppure la carica di via Tolemaide segna uno spartiacque nella storia del G8. C’è un prima, con una gestione dell’ordine pubblico leggera – così discreta da lasciare spazio alla follia dei Black Bloc –, e un dopo, fatto della violenza che riempirà quel pomeriggio, la manifestazione del giorno seguente e la notte della Diaz. Mancano cinquecento metri all’arrivo del corteo partito dallo stadio Carlini e guidato, almeno nominalmente, dalle Tute bianche. Hanno in tasca un accordo con le autorità: raggiungere le barriere della zona rossa, farle scavalcare da un paio di manifestanti, tornare indietro. Sarebbe dovuta andare così, nessuno ne faceva mistero, ce lo aveva anche confermato il colonnello Tesser in quella esibizione di granitiche certezze al bar dell’hotel.
C’è un’ironia amara, a rileggere la sequenza dei fatti. Quel giorno era un debutto. Il primo comunicato dei Disobbedienti viene letto allo stadio Carlini, quando ancora non si è capita l’entità di quello che stanno facendo i Black Bloc. Con una certa solennità da parte di Casarini, che infarcisce il testo di riferimenti ai “fratelli e sorelle dell’esercito di liberazione zapatista” e lo conclude con un omaggio al suo idolo Marcos inneggiando al “levantiamento”, alla sollevazione. Prende fiato e scandisce le coordinate. Genova-Italia-Pianeta Terra, 20 di luglio, giorno dell’assedio, anno primo del nuovo corso.
Qualcosa è successo, nella lunga vigilia allo stadio Carlini. Un patto, un gemellaggio. Una fusione. Le Tute bianche non esistono più, nascono i Disobbedienti, una sorta di supergruppo, che mette insieme i centri sociali del Nord e di Roma, la Rete no global del Sud guidata dallo scanzonato Francesco Caruso e i Giovani comunisti di Rifondazione. A Nicola Fratoianni, il segretario di quest’ultima sigla, il più dotato di senso politico per storia personale, non sfugge il significato di quella operazione. “Siamo tutti insieme ma è qualcosa di più dell’unità di un giorno. Il G8 ci sta dando un’occasione storica per ritrovarci, per provare qualcosa di nuovo.” Non era mai successo prima, nei fatti si tratta della costituzione di un soggetto politico che ha la sua base nei centri sociali, mai così coesi come in quel momento, e mette al centro del suo impegno i temi dell’immigrazione e della precarietà. Non si ripeterà più, e ancora oggi è lecito chiedersi cosa sarebbe stato di quella esperienza senza la ferita di Genova. Forse le pulsioni violente, che pure c’erano, sarebbero state diluite. Forse sarebbe cambiato lo sguardo delle istituzioni su certe realtà ai margini. Non lo sapremo mai.
La nascita dei Disobbedienti è il logico compimento del cammino cominciato negli anni della Pantera. Non un’idea astratta, ma l’ingresso in un territorio sul quale nessun appartenente all’area della contestazione giovanile si era mai avventurato. Casarini, per natura il più disincantato della banda, sembra convinto. Il suo discorso è infarcito di riferimenti visionari, ma nel congedo alle Tute bianche è consapevole degli aspetti pratici di questa svolta. “Non siamo né vogliamo essere avanguardia di nessuno, siamo solo parte di una grande moltitudine che ha scelto la disobbedienza civile per ottenere il diritto a sognare un mondo diverso. Per questa ragione, oggi noi non indosseremo la tuta bianca.” Sono in tanti. Quando il corteo comincia a formarsi sono previste quarantacinquemila persone. Dall’alto dello stadio Carlini, quella mattina del 20 luglio sembra ancora piena di promesse. Poi arriva il pomeriggio.