Chi era Nicolò Paganini?

Lo racconta un capitolo del nuovo libro di Filippo Facci, "Misteri per orchestra"

di Filippo Facci

New York, UNITED STATES: A 1729 Stradivari known as the "Solomon, Ex-Lambert" is on display 27 March, 2007 at Christie's in New York. The fine musical instrument, valued at USD 1,000,000-1,500,000 will be auctioned 02 April, 2007 at Christie's. AFP PHOTO/DON EMMERT (Photo credit should read DON EMMERT/AFP/Getty Images)
New York, UNITED STATES: A 1729 Stradivari known as the "Solomon, Ex-Lambert" is on display 27 March, 2007 at Christie's in New York. The fine musical instrument, valued at USD 1,000,000-1,500,000 will be auctioned 02 April, 2007 at Christie's. AFP PHOTO/DON EMMERT (Photo credit should read DON EMMERT/AFP/Getty Images)

Prima bisognerebbe spiegare che cos’è davvero un violino e perché è considerato il sovrano degli strumenti musicali: bisognerebbe spiegarlo anche se una risposta esauriente non c’è. Si dice che abbia una versatilità unica, che possa imitare indifferentemente il pianto di un bambino o il raglio di un asino, che nient’altro possa produrre melodie di così lancinante bellezza: ma sono risposte che paiono ogni volta insufficienti. La genesi del violino già la dice lunga. Il più vecchio strumento mai costruito venne fabbricato dal cremonese Antonio Amati nel 1564 ed è conservato all’Ashmolean Museum di Oxford; nello stesso museo è conservato anche il violino più famoso, il Messiah, costruito da Antonio Stradivari centocinquant’anni dopo e ancor’oggi perfetto perché non è stato suonato praticamente mai. Sin da subito, quando fu inventato all’inizio del Cinquecento, il violino attirò le ire e gli amori riservati a ciò che è destinato a sovvertire le cose: si cercò di snobbarlo e di liquidarlo come uno strumento da saltimbanchi, un ambiguo e secondario accompagnamento delle danze a cui preferire la viola o il violoncello o il liuto. Poi, però, quando la regina di Francia Caterina de’ Medici lo sdoganò nel bel mondo, si cominciò addirittura a temerlo.

La Chiesa lo mise al bando e alcuni editti ne ordinarono la sistematica distruzione: in quel suono c’era qualcosa che non andava. E sarà stata la sua impressionante assonanza con la voce umana, ma le prime associazioni tra violino e demonio iniziarono allora: di lì in poi, per qualche ragione, nessuno si sarebbe mai più sognato di immaginare che un demone potesse suonare, chessò, la tromba, la cetra, o anche solo la viola. Il diavolo, allora e per sempre, avrebbe suonato il violino. Accadeva mentre la famiglia Amati, a Cremona, aveva già portato lo strumento a livelli eccellenti di perfezione. Le sue diverse parti erano contraddistinte in termini corporei e sensuali: il collo, il dorso, le costole, la pancia, le curve concave e convesse, soprattutto quei fori armonici – già allora di inarrivabile precisione e bellezza – che Man Ray disegnerà nel 1924 sulla schiena di una modella nuda, immortalandoli nel Violon d’Ingres.

Già allora, nel Cinquecento, i vari pezzi venivano costruiti con legni diversi e si comprese che la scelta della vernice condizionava l’acustica, impegnando i liutai in discussioni infinite che proseguono ancor oggi. Capita che un violoncello Amati del Cinquecento sia ritenuto migliore di strumenti modernissimi. Un violino deve essere vecchio per suonare bene, c’è poco da fare: deve cioè conoscere il proprio padrone e adattarvisi, dimostrare memoria e fedeltà. Non si sa bene perché, ma è così. Chiedere a un violinista di cambiare strumento è come chiedergli di cambiare moglie: una follia, o una tentazione vertiginosa. Maksim Vengerov, uno degli artisti più dotati dell’ultima generazione, parlò infatti di matrimonio: nel 1997 per il suo Stradivari Kreutzer pagò quasi un milione
di sterline.

Le violiniste hanno con lo strumento un rapporto ancor più fisico, quasi fosse un’estensione di loro stesse: la tedesca Anne-Sophie Mutter rinuncia alla spalliera e suona il suo Stradivari appoggiato sulla spalla nuda, mentre la giovanissima sovietica Viktoria Mullova, nel 1983, riuscì a passare il confine dopo aver lasciato il suo Stradivari in albergo: il Kgb, che la sorvegliava, perse tempo prezioso perché ritenne impossibile che l’avesse abbandonato. Sulla supremazia dei violini Stradivari, poi, siamo al mistero nel mistero. L’arte di questo artigiano cremonese, a oltre duecentocinquant’anni dalla sua morte, resta un enigma: la potenza e la corposità ottenuta dal suono dei suoi strumenti sono impressionanti anche nell’eseguire i pianissimo.

Gli Stradivari in buone condizioni valgono milioni di euro e sono suonati dai migliori esecutori del mondo: solo un altro liutaio cremonese, Giuseppe Guarneri detto «del Gesù», mantiene una reputazione paragonabile. Né la scienza né la moderna liuteria, per il resto, sono riuscite a fornire risposte convincenti sul perché i violini costruiti da Antonio Stradivari siano incomparabilmente i migliori: non è chiaro chi gli abbia insegnato il mestiere, non è chiaro perché la sua tecnologia rinascimentale sia rimasta insuperata, non è chiaro perché i suoi successori non riuscirono minimamente a eguagliarlo. Si sa che Stradivari nacque probabilmente come falegname e che fu impareggiabile anche nel decorare i ricci del manico, nell’inserire i filetti ornamentali, nell’intagliare i fori armonici; si sa che ascoltava direttamente le richieste dei musicisti e che fece incessanti sperimentazioni alla ricerca del suono perfetto: anche i suoi violoncelli sono i più apprezzati del mondo. E dire che per svelare il mistero le hanno tentate tutte.

Gli strumenti di Stradivari sono stati smontati e rimontati, replicati, esposti alla luce ultravioletta, esaminati al microscopio, sottoposti ad analisi chimiche e a sofisticate tecniche di imaging. Non sono giunte testimonianze circa la composizione delle vernici che usava, sicché gli strati residui sono stati analizzati con spettrometri e con la diffrazione dei raggi X: ma senza risultati apprezzabili. L’adozione di una tecnica usata in ambito archeologico – la dendrocronologia, che analizza gli anelli del legno ed è in grado di risalire alla datazione precisa dell’albero utilizzato – ha permesso di concludere che in Europa, tra il 1645 e il 1715, ci fu una piccola era glaciale che favorì la crescita di alberi dal legno eccezionale e che permise a Stradivari, forse, di costruire strumenti irripetibili: il dettaglio è che lo stesso legno, proveniente perlopiù da valli del Trentino, fu usato anche dagli altri liutai cremonesi ed europei. La dendrocronologia in definitiva ha permesso soltanto di smascherare molti falsi Stradivari, costruiti quando lui era già morto da un pezzo. Altro uovo di Colombo era sembrata la scoperta di una polvere situata tra il legno e la vernice degli Stradivari, una sorta di cenere vulcanica che forse l’artigiano usava come impermeabilizzante: ma la maggior parte degli studiosi l’ha giudicata ininfluente.

Suggestiva, ancora, l’ipotesi che il declino degli strumenti cremonesi sia legato all’avvento di Napoleone: le strade da lui costruite soppiantarono i fiumi come mezzo di trasporto dei tronchi, e forse l’acqua aveva effetti benefici sul legno; interessante, infine, l’idea che il segreto potesse nascondersi nell’utilizzo di ceppi della marina veneziana, impregnati di sale. In entrambi i casi però si parla di legno che fu usato anche dagli altri liutai. La morale è che gli strumentisti di oggi che preferiscono strumenti moderni restano un’esigua minoranza: con la complicazione che gli Stradivari sono destinati a un progressivo logoramento – come tutto, a questo mondo – e che i violini ancora validi non superano la cinquantina. Ogni evoluzione tecnica, sin dal Cinquecento, poggiava naturalmente sulle imprese dei compositori e degli esecutori che portarono l’arte del violino all’eccellenza.

Il primo fu senz’altro Arcangelo Corelli, un romagnolo considerato tra i più importanti compositori dell’età barocca e che diede un contributo fondamentale allo sviluppo del cosiddetto «concerto grosso».

Ma fu il veneto Giuseppe Tartini, dopo di lui, a rafforzare l’immagine dei violinisti in combutta con Satana. La sua storia è suggestiva. Figlio di un nobile religioso, a Tartini fu impartita un’educazione ecclesiastica anche se abbandonò presto ogni proposito di indossare l’abito talare; cominciò a studiare e a insegnare il violino ancorché le sue vere abilità fossero tirare di scherma e ficcarsi nei guai: meno che ventenne sposò segretamente una sua allieva che aveva però il difetto di essere figlia di un dipendente dell’arcivescovo di Bologna, il cardinale Giorgio Cornaro, uno che certo non vedeva quelle nozze di buon occhio.

Perseguitato, il ragazzo dovette abbandonare Padova e rifugiarsi in un monastero di Assisi dove la serenità della vita monastica lo condusse tipicamente a un cambiamento caratteriale: gettò la spada e imbracciò il violino. Prese a suonare durante le messe celebrate ma celato dietro una tenda, così che eventuali emissari del cardinale non potessero riconoscerlo. Leggenda vuole che una folata di vento vanificò il mascheramento, ma che tutto finì bene: il cardinale Cornaro frattanto si era ammorbidito e così diede il consenso al matrimonio galeotto. Tartini riprese a vivere come una persona normale.
A Cremona scovò Antonio Stradivari e gli divenne amico. Comprò uno strumento magnifico, poi noto come Lipinski, e si avviò a divenire il più grande violinista del suo tempo. La sua composizione più celebre, però, è legata a un racconto reso noto nel 1769:

Una notte del 1713 sognai di aver fatto un patto col diavolo. In cambio della mia anima, tutto sarebbe andato secondo i miei ordini. Il mio nuovo servitore anticipava tutti i miei desideri. Pensai di passargli il mio violino per vedere come se la cavava, e grande fu il mio stupore quando sentii una sonata così unica e bella, eseguita con una tale superiorità e intelligenza che non avevo mai udito nulla di simile. Non avevo mai neppure immaginato che potesse esistere una musica così incantevole. Provai un senso di piacere – di rapimento, di sorpresa – talmente intenso che mi sentii mancare il respiro: la forza di questa sensazione fece sì che mi risvegliassi all’improvviso. Il pezzo che composi, e che chiamai Il trillo del diavolo, è di fatto il migliore che io abbia mai scritto, ma non è neppure lontanamente paragonabile a ciò che avevo ascoltato in sogno.

Il primo e autentico virtuoso dell’archetto fu invece Giovanni Battista Viotti, un piemontese che cambiò per sempre il modo di suonare il violino. La sua tournée europea fu sfolgorante. Quando passò da San Pietroburgo – Viotti era un bell’uomo, elegante e affascinante – non poté sfuggire alla cinquantenne Caterina la Grande, la cui predilezione per i giovincelli era ben nota; l’imperatrice era legata al poco più che ventenne Aleksandr Lanskoj, ma l’infedeltà per lei non era mai stata un problema. Il rapporto durò qualche tempo. Non era la prima volta che Caterina amoreggiava con un musicista italiano: aveva già avuto una relazione col violinista Antonio Lolli prima che un epilogo tragicomico mandasse tutto all’aria.

Il capo della polizia zarista, infatti, aveva frainteso un ordine di Caterina affinché il cocker spaniel di corte, chiamato Lolli pur esso, fosse impagliato e conservato in una teca di vetro. Chiarito l’equivoco, Lolli – Antonio – se l’era comunque data a gambe. Viotti, nel marzo 1782, decise di passare per Parigi. Quando si seppe che avrebbe suonato al celebre Concert Spirituel, il principale palcoscenico dell’epoca, il pubblico sciovinista affilò per bene i coltelli: i parigini erano profondamente diffidenti verso i musicisti del Belpaese e figurarsi verso il violino, strumento italiano per definizione. Il conservatorismo francese non aveva retto il passo dei Corelli e dei Tartini, ma Viotti ruppe l’argine e paralizzò il Concert Spirituel con la ricchezza espressiva del suo immancabile Stradivari. Il suo stile fu presto imitato dai violinisti di tutta Europa.

L’italiano fu il primo a usare l’archetto ideato da François Tourte – più o meno identico a quello usato oggi – e la sua fama si eclissò soltanto nei giorni della Rivoluzione francese, quando il suo nome finì sul libretto dei nemici del popolo e rischiò di essere decapitato. Dovette fuggire a Londra.

Ma sin qui abbiamo scherzato, ci siamo fermati alla preistoria del virtuosismo: sono facezie in confronto all’apparizione di una figura che resta inspiegabile al di là di ogni leggenda, di ogni furore ottocentesco, dei fiumi di parole che furono usati per descriverla. Ci provò Heinrich Heine, il maggior poeta tedesco del tardo romanticismo:

Finalmente sul palco comparve una figura scura che sembrava sorta dall’inferno. Era Paganini nel suo abito nero: la marsina nera e il panciotto nero, di un taglio atroce, come forse l’etichetta infernale li prescrive; i pantaloni neri ciondolavano paurosamente attorno alle sue gambe stecchite. Le lunghe braccia parevano allungarsi quando teneva in una mano il violino e nell’altra l’archetto, così in basso che quasi toccavano terra, mentre sciorinava al pubblico i suoi inchini incredibili. Nelle contorsioni angolose delle sue membra vi era una terribile legnosità e qualcosa di terribilmente animalesco, così che ci prese una strana voglia di ridere; ma il suo volto, che al chiarore della ribalta appariva ancor più cadaverico, aveva qualcosa di così doloroso e di così incredibilmente umile che una compassione terribile soffocava le nostre risate. Quello sguardo supplichevole era quello di un malato terminale o nascondeva lo scherno di un sordido spilorcio? O era un morto venuto fuori dalla tomba, un vampiro con il violino?

A Nicolò Paganini mancava tutto ciò che sembrava indispensabile per una qualsiasi carriera: era brutto, magrissimo e spettrale, addirittura spaventoso con quel volto livido e sdentato e cadaverico, il naso aquilino e sporgente, i capelli neri, gli occhiali neri, i vestiti neri, goffo nei modi, d’aspetto malaticcio, puzzava pure. Inoltre era ufficialmente maleducato, avaro, avido, senza cuore, burlesco nel suo inchinarsi come un burattino dell’inferno. Eppure c’era qualcosa di grandioso nella drammatica smoderatezza di questo musicista spuntato dai caruggi genovesi, l’unico in grado di imprimere nella storia della musica un segno di fuoco e di zolfo che nessuno avrebbe più potuto ignorare. Le esagerazioni e le caricature del periodo romantico sono cosa nota, ma lo sono anche le descrizioni che a Paganini furono riservate da critici e compositori già conosciuti per sobrietà.

Franz Schubert, che nell’ascoltarlo ebbe una crisi di pianto, disse: «Durante l’adagio ho sentito cantare un angelo». Fryderyk Chopin parlò di «perfezione assoluta». Franz Liszt lo definì «insuperabile». Robert Schumann ammise che «mai fu dato di ascoltare un fenomeno del genere». Giacomo Meyerbeer concluse che «dove terminano le nostre facoltà razionali, incomincia Paganini». Un gelido illuminista come Ludwig Rellstab così descrisse un concerto berlinese del 1829:

Ieri Paganini ha suonato per la prima volta. È stato accolto con un applauso moderato e molti tradivano troppo chiaramente un’antipatia verso di lui, disprezzato dagli eroi locali del canto declamatorio perché connazionale del nemico Rossini. Ma poi, dopo il primo assolo, esplose un fragore al cui confronto ogni ovazione deve essere considerata debole. Fu un’esultanza quale raramente si è sentita in un teatro, e mai nelle sale da concerto. La partecipazione crebbe. Il suo adagio non è che una piangente melodia, ma mai in vita mia ho sentito piangere in questo modo. Era come se il cuore straziato di quest’uomo malato si aprisse sfogando tutta la sua pena. Che cosa sono mai tutte le musiche per violino suonate sinora? Non sapevo che la musica potesse creare suoni del genere. Non appena si levò il trillo finale fu come se l’applauso di prima non si fosse neppure sentito, non poteva neppure essere paragonato con questo. Le signore si sporsero dalla galleria, gli uomini montarono sulle sedie per vederlo e invocarlo. Non ho mai visto i berlinesi comportarsi così.

L’impressione che mi ha fatto non è stata comunque benefica: vi è qualcosa di demoniaco, il Mefisto di Goethe avrebbe potuto suonare il violino come lui. Tutti i grandi violinisti che avevo ascoltato in precedenza possiedono uno stile personale che può essere individuato, ma Paganini è un’altra cosa: è l’incarnazione del desiderio, dello sdegno, della pazzia e del dolore. Il violino è semplicemente lo strumento attraverso il quale egli esprime se stesso. Avrei fatto volentieri a meno di ascoltarlo, ho perso per sempre il piacere di ascoltare i migliori solisti. Beato colui che non ha ascoltato Paganini: ma il suo ricordo non lo darei via per nessuna cosa al mondo. E se considero bene la cosa, allora sono costretto a dire: infelici coloro che non lo hanno ascoltato.

Nicolò Paganini nacque a Genova il 27 ottobre 1782. A dispetto di lunghi epistolari da lui tenuti per tutta la vita – nei quali si parla perlopiù di soldi, anzi di palanche – la sua biografia resta abbastanza incompleta e le sue tracce spesso si perdono a margine di tournée in cui arrivò a tenere centocinquanta concerti all’anno, questo in città e nazioni diverse.
La sua vita disordinata e la sua propensione a mentire non hanno migliorato le cose, cosicché non manca qualche vuoto imbarazzante che ha favorito racconti anche troppo romanzati: separare realtà e invenzione tuttavia non pare impossibile, perlomeno oggi. Suo padre, uno spedizioniere appassionato di musica, lo avviò al violino quando aveva 7 anni: «Nel giro di pochi mesi» dirà Nicolò «ero in grado di suonare a prima vista qualunque pezzo».

A dispetto di un paio d’insegnanti che s’affacciarono per un breve periodo, in pratica fu autodidatta: e fioccano le leggende su quanto il padre lo obbligasse a esercitarsi. Otto, dieci, dodici ore al giorno: «Mi costringeva con la fame» dirà lui. A nove anni diede il suo primo concertino e a diciotto padroneggiava il violino in maniera così perfetta che saltò il conservatorio e divenne musicista alla Corte di Lucca. Tornato provvisoriamente a San Biagio nella casa di campagna del padre, a 19 anni, si dedicò spasmodicamente alla chitarra e compose opere e sonate mai pubblicate: è probabile che l’esercizio con le sei corde abbia favorito la sua impareggiabile abilità sulla tastiera del violino.

Nello stesso periodo Nicolò si appassionò all’agricoltura lavorando assiduamente nell’orto del casolare, non sapendo che quello stesso terreno, una quarantina d’anni dopo, avrebbe provvisoriamente accolto le sue spoglie mortali. Più o meno nel 1802 Nicolò decise di emanciparsi una volta per sempre dalla figura paterna: sulle date precise, e su quanto tempo cioè si fermò a Lucca e a Parma e poi ancora a Genova, ogni biografia racconta la sua. Sta di fatto che Paganini, a vent’anni, percepiva già 200 lire a sera quando un normale musicista ne prendeva 15.

I suoi concerti furono particolari da subito: suonava quasi sempre melodie di sua invenzione (quelle d’altri le copiava e storpiava, vi improvvisava sopra come un jazzista) e ogni volta giocava col pubblico, l’ipnotizzava, imitava il verso degli animali e produceva suoni comunque incredibili. Il musicista, soprattutto in quegli anni, non negherà d’essersi lasciato andare a una vita di eccessi tra musica e donne e gioco d’azzardo: nessuna traccia in compenso di ombre demoniache o di stregonerie varie, anche perché era un periodo di guerra e di fame – le truppe napoleoniche occupavano Genova – e la gente cercava le varie creature della notte, tipo gatti e topi e pipistrelli, perlopiù per mangiarsele.

Non è chiaro dove Paganini passò i primi anni dell’Ottocento – una lacuna che pagherà cara, come vedremo – ma è sicuro che dopo il 1805 era già un semidio del violino. Sino al 1813 seguì la corte della sorella di Napoleone, Elisa Bonaparte, con la quale si spettegolava avesse una relazione; sicuramente si divertì con le varie cortigiane. A Torino fu invitato a suonare nel castello di un’altra sorella di Napoleone, Paolina Borghese. Dopodiché si avviò a conquistare l’Italia e il mondo. Un artista che avesse voluto occuparsi solo di musica strumentale, nel paese del melodramma, aveva poche speranze: altri violinisti di talento avevano già dovuto emigrare.

Lui però era Paganini. Certo i concerti erano diversi da come spesso li immaginiamo: «Tra la prima e la seconda parte del concerto» si poteva leggere su locandine tutt’altro che cerimoniose «vi sarà l’estrazione della tombola». Si annunciavano per esempio «Variazioni per la sola quarta corda eseguite dal rinomato professore Paganini» o ancora una «Scelta overtur [sic] a grande orchestra», anche se l’autore delle musiche non era nemmeno citato.

L’ammonimento più importante lo si leggeva in fondo: «Niuno potrà entrare se non sarà munito del viglietto». Il violinista affinò la sua tecnica, ampliò il suo repertorio e girò tutte le città d’Italia con la sua carrozza scura e foderata di cuoio: teneva le tendine tirate e, come bagaglio, gli bastavano una vecchia cappelliera e una logora custodia per violino; nessun libro, solo un quaderno rosso con i conti delle entrate e delle uscite. Anche per questo lo giudicarono un inguaribile pitocco. Non c’era uditorio che non ne fosse inquietato e che non lo detestasse, prima che alzasse l’archetto.

Ma poi la gente impazziva: capitava che l’orchestra smettesse di suonare e si unisse al pubblico per applaudirlo. Le scene di isteria si moltiplicarono. La folla, dopo l’esibizione, lo seguiva sino all’albergo, mentre le gazzette non potevano sottacere il fascino che esercitava sugli uomini ma soprattutto sulle donne: e tante ne ebbe, anche famose, anche celebri. Si diceva che la citata Elisa Bonaparte «cadesse talvolta in svenimento al suonare di Paganini».

Si mormorava che anche la sorella Paolina Borghese, già libertina di suo, fosse caduta nella rete. Il tutto si mischiava a dissolutezze d’ogni sorta – Paganini era un affezionato fumatore d’oppio – che certo non scoraggiarono l’attrazione femminile verso di lui, tanto che non mancarono teorie che associano gli armonici del violino a cadute verticali delle inibizioni. Per scriverla come fece la «Gazzetta di Genova»: «Esercita un potere sì magico sugli uomini … Si presenta, si pianta in mezzo solo, e lo diresti un Apollo». Non lo era. Per dirla con Jeanne de Valois, già contessa de La Motte: «Ero affascinata, non vedevo più la sua bruttezza, mi parve d’esser trasportata in un altro mondo».

Ma era un mondo che incominciava a insospettire. Le associazioni tra Paganini e il demonio si insinuarono sempre più maliziosamente e si favoleggiò che per suonare adottasse tecniche ignote e misteriose. Ogni tanto gli orchestrali cercavano di esaminare il suo strumento – uno Stradivari, poi un Guarneri del Gesù – per carpire qualche segreto, ma ogni volta lo trovavano scordato e impossibile da suonare. Si suppose che Paganini avesse inventato una propria accordatura o che fosse capace di cambiarla in corso d’opera, e c’era del vero. Era sua abitudine distribuire le partiture solo immediatamente prima delle prove salvo ritirarle subito dopo: oltretutto vi comparivano solo i passi per l’orchestra, degli assoli non c’era traccia.

Paganini suonava a occhi chiusi. È anche per questo che le composizioni che il violinista diede alle stampe non superarono i cinque numeri d’opera: quelle che non volle mai pubblicare, le più importanti, dovevano essere eseguite soltanto da lui. Una sua certa altezzosità mista all’ossessivo timore di essere copiato – al tempo non esistevano tutele legali – è anche all’origine dell’abusata espressione «Paganini non ripete», parole che il violinista fece riferire al governatore del Teatro Carignano di Torino, Carlo Felice, che gli aveva fatto chiedere di ripetere un brano.

Finì male: gli proibirono di eseguire gli altri concerti che aveva in programma in città. Poco male, il nome e la fama di Paganini avevano travalicato i confini nazionali: da anni si favoleggiava di questo funambolo dell’archetto e gli inviti fioccavano da tutta Europa. Nel 1826 il violinista ebbe un figlio dalla sua amante Antonia Bianchi – lo chiamarono Achille – e fu lei a convincere il violinista a cedere alle lusinghe che il cancelliere Metternich gli rivolgeva da tempo. E così, bimbo al seguito, partirono per una tournée interminabile che l’avrebbe portato in Austria, Germania, Polonia, Francia, Inghilterra, Scozia e Irlanda.

Paganini era nel pieno della sua maturità artistica – anche un poco oltre – e il successo fu tale che non mancarono scene isteriche, svenimenti, fanatismi da concerto rock. A Londra, a furia di repliche alla Royal Opera House, giunse a guadagnare in poco tempo 6000 sterline di allora (circa 725.000 euro) anche se passò un guaio perché cercò di fuggire con una diciottenne, come meglio vedremo. Nei teatri tedeschi vigeva l’obbligo «di non dare alcun segno di approvazione o disprezzo allorché è presente la Corte» ma la regola fu frantumata. Nel giro degli accademici fu vinta ogni diffidenza ma non smise di serpeggiare anche una certa inquietudine.

Il severo Adolph Bernhard Marx, docente di teoria musicale all’Università di Berlino, la riassunse così:

Gli elementi esteriori del suo stile sono il risultato di un impossibile tour de force e sono per lui una vera inezia. Ma ad affascinare gli uditori è la poesia interiore della sua fantasia che prende forma davanti ai nostri occhi. Quello non è più violino, non è più musica, ma stregoneria.

L’impatto fu devastante soprattutto a Vienna, indubbia capitale della musica e del mondo occidentale. Non era ancora la metropoli della Sachertorte e del Prater con la sua Ruota panoramica, ma i fasti dell’impero asburgico già bussavano coi loro pomposi palazzi affacciati sul Ring, i castelli fiabeschi, i fruscianti vestiti che sagomavano migliaia di donne nella città con la più alta concentrazione di teatri, auditori, sale da ballo e negozi di spartiti e strumenti musicali. I biglietti per il primo concerto di Paganini, previsto alla sala da ballo imperiale, furono venduti a cinque volte il loro prezzo corrente, al punto che si diffuse il vezzo di indicare la banconota da cinque fiorini come un «Paganiner».

Eppure la serata d’esordio, complici i prezzi e lo snobismo dei viennesi, andò quasi deserta per tutta la prima parte: solo durante l’intervallo gli intervenuti gridarono al fenomeno e scandagliarono le locande e le vie impregnate dell’aroma del gulasch. Poco più tardi i vetturini con le loro bombette affollarono l’ingresso della Grande Redoutensaal e la sala fu piena, e totale il delirio. La polizia fu costretta a diradare la calca.

Vienna era anche la capitale del bel vivere e di ogni possibile tendenza, delle uniformi e del baciamano, dei manicotti di pelliccia e degli sguardi celati sotto le velette dei cappelli di piume, dei caffè con la panna tra specchi e velluti e delle cene col tacchino e il Borgogna: non aspettava, dopo anni d’attesa, che un nuovo idolo da venerare. Cosicché l’influenza di Paganini, di lì in poi, si allargò al quotidiano: cominciò la moda incontrollata degli scialli alla Paganini, quindi dei fazzoletti, dei guanti, dei cappelli alla Paganini, delle scarpe, delle tabacchiere, delle pipe alla Paganini, dei piatti, delle bistecche, persino delle frittate alla Paganini.

Nessuno, almeno sino all’avvento della musica leggera, avrà un successo paragonabile al suo. A differenza di personaggi come Oscar Wilde o George Brummel, però, Paganini non fece nulla per favorire tutto questo.
A parte, s’intende, suonare il violino. A Vienna propose il Secondo concerto con il suo concentrato di virtuosismi e passaggi tecnici irripetibili. L’Allegro maestoso, poi l’Adagio con la sua melodica semplicità, infine il Rondò della celebre «campanella». Come in Italia, gli applausi partirono dall’orchestra. La sua sentimentalità visionaria, oscura e istintiva, sfociava in un virtuosismo che appariva perfettamente disteso, naturale, svuotato di ogni sofferenza.

Le impressioni dei compositori dell’epoca si affiancavano alla consapevolezza che ogni destrezza poggiasse su un talento incommensurabile, tanto che Liszt e Schumann si prodigheranno per tradurre i ventiquattro Capricci paganiniani in versioni per pianoforte. Non tutte le reazioni parvero però compassate: Joseph Böhm, fondatore della scuola violinistica ungherese e ritenuto capace di suonare qualsiasi cosa, disse che Paganini era il più grande virtuoso di ogni tempo: dopodiché decise di non esibirsi mai più in pubblico. Un gesto che accrebbe la leggenda del genovese e la frenesia di carpirne il segreto.

Paganini sembrava nato per il violino. Aveva un orecchio assoluto e doti naturali combinate in maniera irripetibile, leggeva la musica a prima vista, accordava con un sistema tutto suo e con precisione elettronica, vantava interi repertori basati su una corda sola, con due dita intonava una melodia e con le altre l’accompagnava, così che i musicisti sembravano tre. In sostanza ebbe a inventare tutti gli espedienti che compongono il bagaglio del violinista moderno: mulinelli, scale picchettate, guizzi dall’alto al basso, passaggi tecnici che nel caso della sua letteratura – si pensi ai citati Capricci – rimangono irripetibili perlomeno con la pulizia e la velocità che prevedevano.

Solo i progressi della tecnica strumentale avrebbero permesso a pochi violinisti di cercare di emularlo. È la conformazione fisica di Paganini a essere irripetibile: le spalle strette ma forti, il tronco gracile, le braccia smisurate, le dita a ragno, una spalla più alta dell’altra a furia di suonare con lo strumento rivolto verso il basso, all’italiana, alla Paganini. Per non parlare della sua mano sinistra, oggetto di studi anche ridicoli e farlocchi: è perlomeno assodato che il violinista era in grado di flettere lateralmente le falangi delle dita e di piegare il pollice sul dorso della mano sino a fargli toccare il mignolo; arrivava a coprire tre ottave di violino e si è ipotizzato che la sua straordinaria duttilità fosse favorita anche da qualche particolare malattia (sindrome di Marfan, sindrome di Ehlers-Danlos) per quanto resti probabile che a facilitare l’eccezionale elasticità dei suoi legamenti sia stato l’esercizio cui si sottopose sin dall’infanzia.

Il mantenimento di questa flessuosità, secondo testimonianze anche dirette, erano ore di pratica quotidiana che la vanità di Paganini tendeva a negare. Anche perché tutto questo, un qualche prezzo, doveva pur averlo. E l’impietosa società ottocentesca cominciò a chiedersi come Paganini l’avesse pagato. Scrisse Ole Bull, un violinista norvegese che conobbe e apprezzò il musicista: A Vienna su di lui circolavano dicerie di ogni genere. Si diceva che quando sua madre stava morendo, egli le fece alitare l’ultimo respiro sul suo violino; che egli era un criminale che aveva trascorso molti anni in prigione, avendo per unico compagno il violino; che aveva gradualmente consumato tutte le corde salvo la quarta, di qui l’abilità nell’eseguire qualsiasi brano su quella corda.

A nulla servì l’aver fatto pubblicare testimonianze ufficiali a dimostrazione che non era mai stato in prigione. Neppure servì, a por fine alla storia della morte della madre, la pubblicazione di una lettera per dimostrare che era ancora viva. Il Paganini diabolico germogliò su un terreno già fertile.
Un certo romanticismo intravedeva zolfi dietro ciascuna genialità umana, e l’associazione tra violino e inferi, come visto, era ricorrente: Mefistofele lo suonava vorticosamente nel Faust di Goethe e un’antica favola russa, poi musicata da Igor Stravinskij, raffigurava un soldato che cedeva lo strumento al diavolo. Anche i fratelli Grimm avevano raccontato qualcosa del genere.

Poteva essere normale, dunque, che circolassero vignette e quadretti in cui il musicista era raffigurato come un demonio circondato da streghe e demoni. Però qui si andava oltre. E non solo perché c’erano critici musicali serissimi che erano disposti a giurare d’aver visto Satana guidargli l’archetto: Stendhal insisteva nel dire che Paganini avesse imparato a suonare «non dopo otto anni di conservatorio, bensì per un errore amoroso che lo aveva gettato in prigione per molti anni». La storia fu anche perfezionata: dicevano che l’unica corda del suo violino, in galera, era stata strappata dall’intestino di una ragazza che aveva assassinato.

Il problema è che a propiziare il mito demoniaco di Paganini contribuì direttamente lui, e che molte leggende, anche quando non vere, avevano comunque un fondo di verità. In effetti era lui a presentarsi agghindato a quel modo, a incoraggiare i parossismi del pubblico con atteggiamenti e posture, a suonare Le streghe come pezzo forte del suo repertorio, ad avvolgere ogni esecuzione nel segreto. Era lui a raccontare di non aver bisogno di esercitarsi («l’ho fatto abbastanza nella mia giovinezza») e a non pubblicare le sue opere interpretate oltretutto con un violino insuonabile.

Era lui ad aver cercato di dimostrare l’esistenza in vita di sua madre – analfabeta – con una lettera falsa, come si appurò successivamente. C’era del vero anche nella faccenda della carcerazione. Paganini fece di tutto per nasconderlo, ma nel settembre 1814 frequentò e ingravidò una minorenne che l’anno successivo, il 24 giugno, diede alla luce una bambina morta. La ragazza si chiamava Angelina Cavanna e Nicolò fu imprigionato per ratto e seduzione di minore: dovette rifondere danni salatissimi.

Le voci sul suo imprigionamento, distorte a dovere, partirono da qui. Orgoglioso com’era, lui non smentiva, reagiva a modo suo: «Per vendicarmi» scrisse «protesto d’incarire vieppiù il biglietto d’ingresso alle Accademie che darò nel resto d’Europa». A complicare le cose c’è che in tutte le biografie di Paganini, anche le più accurate e moderne, vi è sempre un vuoto di qualche anno: e fu dopo quel periodo che il virtuoso si manifestò in tutta la sua diabolica perfezione. Per discrezione che potesse essere la sua, Paganini ogni volta spariva e riappariva sempre più ossessivamente perfetto. È pure comprovata una propensione di Paganini al macabro e alla necrofilia. Fu l’alto magistrato Matteo Nicolò de Ghetaldi, in alcune lettere, a raccontare che il violinista nel 1824 suonava ogni notte al cimitero del Lido di Venezia, attorniato dagli sghignazzi e dai pianti del pubblico seduto sulle lapidi.

Altre volte il musicista fu visto recarsi negli ospedali ad assistere all’agonia dei colerosi. Il personaggio era così, un fondamentalista del romanticismo che incedeva nello scenario drammatico e abbacinato, nella vividezza del dolore e dello spasimo. E infatti non è questo, non sono questi i peggiori segreti che nascondeva. Nicolò Paganini fu il protagonista di una storia che può solo atterrire, se vista di spalle: e non v’è romanza più triste e disperata della sua.

Non è noto se davvero sua madre – il racconto è suo, di Nicolò – ebbe in sogno il Salvatore, il quale le avrebbe accordato quell’unica grazia: far divenire suo figlio un suonatore di violino. Ma è noto che di grazie non ne ebbe altre. Si può ritenere, come detto, che a favorire il mito demoniaco dapprima sia stato lui: l’uomo non difettò in dissennatezze e in risvolti conturbanti. Miserabile, abietto, sgradevole, privo di qualsiasi apparente requisito per imporsi in una società dominata dal sentimentalismo e dal pathos.

Autodidatta: ma costretto dal padrea impratichirsi sino a notte fonda. Genio: ma che si esercitava, di nascosto, ogni santo giorno. Paganini non era altro che il suo violino, e l’imparò presto. Incantò gli uomini come s’incantano i serpenti, nella sconsolata consapevolezza che a melodia cessata gli uomini e i serpenti sarebbero tornati più velenosi di prima. Paganini non fu incapace di amicizia: ne strinse di grandi con Rossini, con Schumann, con Spohr e con Mendelssohn. Non fu uno spilorcio: era attento alle piccole spese ma generoso nelle grandi, come dimostrò regalando la bellezza di 20.000 franchi al francese Hector Berlioz più altri 50.000 al suo avvocato e confidente Luigi Germi, denaro che oggi corrisponderebbe a decine di migliaia di euro.

Paganini non era inetto a ogni umiltà: tenne diversi concerti di beneficenza, diversamente da quanto sostenuto, e si inginocchiò pubblicamente davanti a Berlioz dopo un suo commovente concerto per viola. L’icona paganiniana, che da Vienna in poi fu immortalata diabolicamente nei disegni di Lyser, non contemplava la dolcezza e la tenerezza che il violinista dimostrava a suo figlio Achille, come riferito da testimoni che avevano libero accesso al camerino dell’artista. E quando Paganini ruppe con l’amante Antonia Bianchi, nel 1828, fu ben lieto di pagare i 2000 scudi da lei richiesti affinché rinunciasse a ogni rivendicazione sul bambino, ormai divenuto il centro della sua vita.

Per ottenere il riconoscimento del figlio smosse mari e monti. Paganini non fu soltanto un vorace donnaiolo: decine di lettere, dopo il compimento dei suoi trent’anni, non fecero che ammiccare al matrimonio pur nella difficoltà che potesse farlo convivere con la sua vita itinerante e ormai ufficialmente demoniaca. La corrispondenza del violinista con Luigi Germi racconta di sempre nuove femmine conquistate o da conquistare, da liquidare o da sposare: dalla tredicenne Eleonora («quando ella potesse corrispondermi») alla «novella Elena», dalla non individuata «Signora Tadea» alla citata Antonia Bianchi.

Certo, lui era Paganini, letteralmente assaltato dalle donne, ma quante speranze ogni volta vanificate, nelle sue lettere: «L’altro giorno vidi una savia giovane in una chiesa, e me ne ero alquanto invaghito… Che cosa mi consiglieresti? Di prenderla in sposa o di restar nubile?». E ancora: «Dopo ch’io vidi questa seducente creatura, passo i miei giorni nella tristezza, combattuto da mille penose idee». E ancora: «È bella come un angelo, educata da principessa, la giovine diverrebbe volentieri mia sposa … pensi che dovrei decidermi?». Benché Paganini non fosse preceduto da buona fama, la letteratura prevalente che lo riguarda parte più o meno dal 1828, quando la sua mirabolante tournée lo fece trionfare in tutta Europa fuorché in Russia e negli Stati Uniti, dove non riuscì a recarsi perché le sue condizioni di salute non glielo permettevano.

Era questo il peggiore segreto che nascondeva: la sua malattia, quel morbo autoindotto che da ometto macabro e stravagante l’aveva trasfigurato nell’immortale Lucifero del pentagramma. Nicolò Paganini aveva 6 anni quando fu dato per morto per un semplice morbillo: stavano per sotterrarlo vivo ed era già avvolto nel sudario, solo un piccolo sussulto lo salvò da esequie premature.

Durante l’infanzia soffrì per la sua pelle ipersensibile che in ogni stagione lo costringeva a coprirsi pesantemente e a patire malanni da raffreddamento: dopodiché la corrispondenza del violinista allude a problemi di salute soltanto a partire dal 1820, lui trentottenne. In quel periodo lo affliggeva una tosse cronica e stava già perdendo peso. In altre parole, era iniziato il lento e inesorabile assassinio cui fu sottoposto da parte dei medici. Uno specialista palermitano, giusto in quel periodo, gli prescrisse dei lassativi che progressivamente cominciarono a devastarlo.

Poi, nel 1823, la sua cattiva fama di dongiovanni fece interpretare la sua tosse e l’aspetto cadaverico come i sintomi di una latente sifilide, malattia per curare la quale – come accadde per Mozart – al tempo veniva somministrato il mercurio in dosi che lo stesso Paganini definì «mortali». Siro Borda, un noto clinico dell’Ateneo di Pavia, gli diagnosticò genericamente una «vecchia infezione sifilitica» e per calmare la tosse gli elargì un altro geniale consiglio: fumare dell’oppio. Niente più vino, in compenso: solo latte d’asina. Diversi anni dopo si appurerà che la tosse era di origine nervosa, e che il colorito gli era naturale. Le conseguenze della terapia furono inarrestabili. Gli si infiammarono le mucose della bocca, i disturbi gastrointestinali non si contarono e iniziarono a cadergli i denti.

Una mattina, entrando in casa di Paganini, fui colpito da suoni prolungati e lamentosi provenienti dalla sua camera da letto: sembrava di riconoscere una fanciulla che stava per essere assassinata. Aprii la porta e vidi lui che suonava il violino. Non dimenticherò mai la sua espressione quando si fece cavare tutti i denti… terribile… scoppiò in un riso lungo e continuo… il sangue gli colava dagli angoli della bocca.

Il racconto è dello scultore David d’Angers, autore di un busto di Paganini rimasto celebre. E il suo pare soltanto il resoconto della visita a casa di un pazzo e di un masochista, non di un infermo. Il volto del violinista, quale che fosse la verità, in ogni frangente ridiventava soltanto una caricatura su uno sfondo di demoni e streghe.

Non saprei descriverti la mia sofferenza. Chiamati quattro professori i più celebri, e unisoni al consiglio, mi posi su una sedia fermo come una statua ed essi operarono armati di grosso ago, temperini e forbici. Indi mi cavarono tutti i denti. La mia trepidezza sorprese i professori, e si spera che l’osso cariato procureranno di estrarlo onde ristabilirmi presto, ché questa popolazione smania di sentire il mio violino.

Queste invece sono parole di Paganini in una lettera scritta all’avvocato Luigi Germi il 20 ottobre 1828, anno della partenza per la tournée europea e periodo in cui il violinista era già ridotto alla sagoma che fu immortalata. Oltre ad aver perso tutti i denti inferiori, tanto che in privato era costretto a portare una benda che gli sorreggeva la mandibola dolorante, la vista gli era nettamente peggiorata ed era costretto a portare delle lenti scure (in realtà blu) che lo proteggevano dal sole e dalle luci della ribalta; il pallore si era fatto addirittura «grigiastro» e lo stesso musicista ammise d’esser diventato «molto brutto». È questo il Paganini che si affacciava sul proscenio viennese.

L’avvelenamento cronico da mercurio si accompagnava a indubbi effetti sulla psiche, ciò che in gergo tecnico era chiamato «eretismo»: significava che il tremito prendeva il sopravvento e che il carattere dell’intossicato si faceva fobico, solitario, apatico, depresso, bastava un niente per cedere al nervosismo e per trasalire a fronte di rumori improvvisi, la vista diveniva «a galleria» ed escludeva ciò che non era ben stagliato davanti allo sguardo. Ecco dunque le movenze a scatti di Paganini, la comica animalità del Satanasso, le grottesche riverenze della nera marionetta; ecco dunque le sue famose «mani tremanti» che i pettegolezzi descrivevano come lo sgomento dell’ateo al cospetto di Dio.

È questo il Paganini che il mondo avrebbe ricordato. Il musicista continuò a soffrire per le cure e per la sua stessa ipocondria. Sempre quell’anno, nel 1828, un altro specialista gli comunicò che era tisico e che nel giro di un anno sarebbe morto: il risultato fu che il musicista si spaventò ancora di più e intensificò le cure con il mercurio. Altri specialisti disposero degli inutili salassi con sanguisughe, mentre per lenire i dolori addominali, causati anche da loro, gli consigliarono di montare a cavallo. Il primo e l’unico ad accorgersi che i medici lo stavano ammazzando fu Francesco Benati, professionista che aveva curato il musicista per oltre dieci anni e che Paganini rincontrò durante i giorni viennesi. Una sua lunga e accurata anamnesi, resa nota nel 1831, spiegava tra l’altro:

Paganini appare pallido, verdastro, denutrito e di media statura. Ha solo 47 anni, ma la sua magrezza e la mancanza di denti, che gli provoca una bocca cascante e un mento molto sporgente, gli conferiscono un aspetto senile. Il suo cranio eccessivamente grande, poggiante su un collo lungo e sottile, è totalmente sproporzionato rispetto alla magrezza del corpo. Sul suo volto spiccano una fronte alta e accidentata da incavi e protuberanze, un naso aquilino e una bocca malignamente guizzante. Appariscenti sono poi le grandi orecchie molto sporgenti, e i lunghi capelli grassi e sottili, il cui colore nero è in netto contrasto col suo volto esangue… Non c’è parte della sua costituzione fisica che non mi sia nota … Il medicamento al mercurio ha avuto sullasua salute il più disastroso degli effetti, perché ha attaccato lo stomaco e le gengive, i denti caddero.
Il danno, già grande, fu accresciuto dall’uso di un altro rimedio sconsiderato che prese per due anni: il purgante ed emetico di Leroy. Stufo dell’inutile ricorso ai medici italiani e tedeschi, stanco di sentirsi dire che i suoi giorni erano contati, si rivolse ai ciarlatani sperando di trovare quell’aiuto che la medicina ufficiale, obiettivamente, non riusciva a dargli. Certamente questa panacea non fece miracoli, e quando lo incontrai a Vienna, nel 1828, era difficile trovare qualcuno in una condizione più debilitata di quella in cui si trovava quando, dietro mio consiglio, ne interruppe l’uso. Neanche i timori di una condizione tubercolotica avevano fondamento, come mi assicurai. Non è tisico, come si era creduto in precedenza. Il suo deperimento non è dovuto alla presenza di tubercoli nei polmoni né a qualche lesione di altri organi vitali. È smilzo di costituzione. Aggiungerei che per lui è necessario essere così, perché altrimenti non sarebbe Paganini.

Il citato «purgante ed emetico di Leroy» era un’altra schifezza che il musicista assumeva proprio perché sperava che potesse depurarlo dal mercurio: così almeno recitava un trattato francese che il musicista aveva letto avidamente, e secondo il quale il preparato poteva curare anche la sifilide – che lui non aveva. Oltre al preparato di Leroy, Paganini assunse anche il calomelano, un composto a base di cloruro mercuroso che il musicista metteva nel tè e che gli causava faringiti e, ovviamente, altro avvelenamento da mercurio. La conseguenza di tutti questi rimedi corrosivi fu un restringimento dello stomaco: tutto il cibo gli andava sminuzzato e a ogni pasto passava a tavola almeno due ore.

Sulla sua vita calavano ombre lunghissime, ma lui cercava di viverla come poteva. Fece buon viso a un gioco crudele. Nel gennaio 1831, mentre l’adorato Achille era a letto con la rosolia, l’avvocato Germi gli comunicò che suo fratello Carlo era morto e che anche sua madre era gravemente malata. Paganini rispose così: «Ciò mi fa tristissimo…L’epoca presente non è delle più favorevoli, ma essendo la vita molto corta, procurerò di non perder tempo».

I propositi di maritarsi e di ammarare verso lidi tranquilli non l’abbandonarono mai. Non passava mese senza che nuove candidature fossero sottoposte al suo amico avvocato. Tra molte improbabili – che Paganini per primo chiedeva in spose, salvo cambiare rapidamente idea – spiccò per pervicacia l’infuocata baronessa Helene von Feuerbach, figlia di un importante diplomatico tedesco e già maritata con un nobile bavarese. I due si frequentarono clandestinamente e si promisero ogni bene.
Da una lettera all’avvocato Germi:

Ella ha dichiarato di rinunziare a tutte le mie ricchezze, e di non voler che la mia mano. Che ne dici di tutto questo? È molto difficile trovare una donna che mi ami quanto Elena. È vero che quando sentono il mio linguaggio musicale, l’oscillazione delle mie note le fa tutte piangere; ma io non sono più giovane, né sono più bello; anzi sono diventato bruttissimo.

È presumibile che Helene von Feuerbach si sarebbe votata a Paganini con dedizione assoluta, tanto che ottenne comunque il divorzio nell’attesa di poter giungere all’altare col musicista; ma le mille titubanze di lui, miste al timore di nuovi scandali, sfociarono ancora una volta nel nulla. Il musicista chiese altro tempo, mentre lei, dopo un periodo in ritiro spirituale, prese a viaggiare per l’Europa. È ciò che fece anche Paganini, mai pago di nuovi trionfi. A Parigi fu un coro di lodi, neppure il raddoppio dei prezzi sembrò spaventare i francesi: ma fu sufficiente un solo episodio per uccidergli il morale.

Passeggiando per il Boulevard des Italiens, in una vetrina, notò una litografia che lo raffigurava rinchiuso in una cella a suonare il suo violino, come leggenda voleva; poi scoprì che la stessa immagine era stata riprodotta anche sull’importante «Revue Musicale». Gli anni passavano ma poco cambiava. A parte, in peggio, la sua salute. A Londra, dopo un inizio difficile – gli inglesi il raddoppio dei prezzi non lo digerivano proprio – Paganini si avviò a guadagnare più denaro che in tutte le tappe precedenti.
Le parole del critico Henry Chorley tuttavia lo colpirono:

La comparsa di questo stregone non può che indurre tutti i violinisti al suicidio. Egli accorda sui registri acuti, tuttavia raggiunge un suono sferico e rotondo incredibile. La sua musica e il suo stile sono caratterizzati dalla malinconia. Il detto secondo il quale la tristezza è sempre fragile può benissimo riferirsi all’esecuzione di questo strano individuo. Egli riesce letteralmente a comunicare al proprio strumento una sorta di sensibilità animalesca, e a tratti ne cava pianti e lamenti con quella verità ed espressione che originano dal dolore fisico.

Lo stregone, Paganini, era sempre più perseguitato dalla propria caricatura. Scriveva al Germi:

Una nuvola di ritratti, fatti da diversi artisti, è apparsa per tutte le botteghe di Londra, ma uno che veramente mi somiglia non è comparso ancora tra le stampe. Si vede anche qualche parodia buffonesca; una mi presenta in atto di suonare in attitudine strana, mentre il leggio si accende e brucia.

Paganini accelerava verso l’ignoto. Nel 1832, spostandosi in carrozza su strade pietrose, riuscì a tenere sessantacinque concerti in tre mesi in trenta località diverse, un ritmo che farebbe stramazzare una moderna rockstar. Negli stessi giorni l’avvocato Germi gli comunicava che sua madre era morta, ma Nicolò non fece una piega. Nel rispondere, non sfiorò l’argomento:

Il fanatismo diabolico prodotto dal mio strumento ci ha determinati di dare altri sei concerti.
Sarò di ritorno per il 20 del prossimo febbraio per recarmi ad abbracciare il mio caro Achille, ragazzo adorabilissimo, che sta ben collocato ma che non lascerò più … A dirti il vero mi rincresce che in tutte le classi si propaghi l’opinione ch’io abbia il Diavolo addosso. I giornali s’intrattengono troppo sulla mia figura.

Londra registrò anche l’ultimo sussulto della disperata carriera sentimentale di Paganini. Una vicenda torbida – ovviamente – ma cominciata con una buona azione: il musicista, dopo aver saputo che il suo ex collaboratore John Watson era stato incarcerato per debiti, era accorso in suo aiuto e aveva pagato una cauzione per la sua liberazione; inoltre aveva offerto un concerto a sua totale beneficenza, o meglio a beneficenza di Charlotte Watson, la figlia di cui frattanto Nicolò si era innamorato. I due amoreggiarono di nascosto e fecero progetti.

C’è da presumere la totale buona fede di Paganini, se è vero che le regalò un diamante da dodici carati e predispose di sposarla una volta che si fossero trovati a New York. Solo che il piano fallì. La maledizione legata alla popolarità del personaggio, ancora una volta, non fu estranea. I due si diedero appuntamento in Francia, a Boulogne, ma programmarono di giungervi in momenti diversi per non dare nell’occhio; la fuga della ragazza fu però immediatamente scoperta dal padre, che l’attese al varco e la rispedì filata a Londra.

Lo scandalo scoppiò ugualmente perché un giornale di Boulogne si impossessò della storia e la pompò all’inverosimile, coinvolgendo a più riprese tutti gli attori e costringendo Paganini a una goffa autodifesa. Watson, pur rifiutando di acconsentire alle nozze, ammise che «le vere intenzioni di Paganini non contenevano nulla di disonorevole». Il musicista, demoralizzato e scoraggiato dall’aggressività della stampa, si ritirò in buon ordine, persuaso che forse non si sarebbe accasato mai. Anche perché gli rimanevano solo sei anni da vivere.

Piani e propositi si fecero confusi. Paganini pensò di dare alle stampe tutte le sue opere, ma non se ne fece niente. Progettò di aprire un casinò a Parigi col suo nome scritto a caratteri cubitali, ma l’impresa naufragò e fece bancarotta anche perché non era più in grado di suonare. La salute peggiorava, le degenze si facevano ogni volta più prolungate. La voglia di scappare negli Stati Uniti non venne mai meno, anche perché era lì che Charlotte Watson era comunque andata e lo aspettava per sposarlo, come la corrispondenza tra i due dimostra.

Ma Paganini era un uomo ormai fiaccato, distrutto. Incaricò un’agenzia di Le Havre di prenotare i biglietti per oltreoceano, ma dovette rinunciare perché ogni giorno regrediva e perdeva peso. Sviluppò una brutta ritenzione urinaria e dovette introdursi dei cateteri, anzi delle «candelette forate di stagno». A Nizza si accorse di avere un’orchite, o meglio «un testicolo grosso quanto una pera o una piccola zucca». Gli dissero che era colpa dei troppi viaggi in carrozza. Accadeva nel 1837, stesso periodo in cui Charlotte Watson, stufa di aspettare, si maritò con un americano. Nei due anni successivi, l’avvelenamento da mercurio finì il suo lavoro.

Paganini diventò praticamente muto, afono. Il figlioletto Achille era abituato a leggergli le parole sulle labbra e gli faceva da interprete, ma quando non fu più possibile prese a comunicare con dei bigliettini. Ormai non riusciva più neppure ad alzare l’archetto: e quando non riuscì neppure ad alzare se stesso, e restò confinato a letto per cinque mesi, fu evidente a tutti che stava morendo. Chiuse gli occhi alle cinque del pomeriggio del 27 maggio 1840, a 58 anni. I medici parlarono di «tubercolosi dei polmoni e della laringe», una diagnosi qualsiasi. Ma il caso di Nicolò Paganini ha questo di diverso: la persecuzione lo inseguì anche da morto.

Nelle ore del crepuscolo fu chiamato un prete che gli somministrasse l’estrema unzione, ma non si sa bene che cosa successe. A una prima visita, Paganini cercò di farsi intendere a gesti – era afono, come detto – ma probabilmente fu male interpretato, talché il prete, certo Caffarelli, se ne andò seccato perché il moribondo non riusciva a confessarsi. Sollecitato a tornare, trovò il musicista che cercava di scrivere i propri peccati su una lavagnetta, cosa che disorientò il canonico che se ne andò indignato e denunciò l’accaduto al vescovo di Nizza, monsignor Galvani. Mancò il tempo di rimediare: più tardi, dopo un violento colpo di tosse, Paganini morì.

Un giornale francese scrisse che prima di andarsene il musicista aveva fatto le improvvisazioni più straordinarie della sua vita. Il prete raccontò che il morente aveva rifiutato i sacramenti. Una sciocchezza, dato che il problema era stato meramente tecnico e che Paganini non aveva mai omesso di considerarsi un cristiano osservante: nel recente testamento, pure, si era raccomandato «all’infinita misericordia del Creatore» e aveva ordinato che fossero celebrate «cento messe dai padri cappuccini».

L’animosità delle sfere ecclesiastiche tuttavia non ripiegò e i pettegolezzi ebbero la meglio. Furono accolte solo testimonianze a sfavore, comprese quelle della cuoca di Paganini e del suo amante.

Decisivo, così pare, fu il riferimento del prete Caffarelli ad alcuni «disegni licenziosi» appesi alle pareti; si appurerà che trattavasi di una stampa di Leda col cigno di Leonardo da Vinci, databile all’inizio del Cinquecento. Il vescovo dichiarò perciò «empio» il defunto (impuro, profanatore, che manifesta uno spirito malvagio) e gli fu negata la sepoltura in terra benedetta. Alla stampa fu vietato di citarne persino il nome. Intanto il conte di Cessole, amico del violinista e nominato tutore del figlio Achille, incaricò uno specialista affinché imbalsamasse la salma, che poi rimase per due mesi nella stessa stanza del decesso. Il cadavere, nella sua logora finanziera da virtuoso, giacque in una bara non saldata con una lastra di vetro all’altezza del volto.

Si dovette respingere l’offerta di un commerciante di oggetti usati che chiedeva di poter esibire il corpo in Inghilterra. Intervennero le autorità sanitarie per ordinare la rimozione del corpo: fu sistemato nella cantina del conte di Cessole in attesa di spedirlo a Genova. Nel frattempo Achille e pochi amici si industriavano per far revocare il decreto del vescovo: inoltrarono petizioni alle autorità genovesi e al ministero degli Interni, ma niente da fare. Stato e Chiesa sembravano irremovibili e proibirono anzi «qualsiasi articolo relativo a Paganini», tanto che anche i necrologi vennero pubblicati soltanto all’estero. La vicenda restò senza approdo per un po’ di tempo. Un nuovo ricorso presentato al Senato di Nizza rimase lettera morta.

Si decise di rivolgersi direttamente al papa e un noto legale genovese si presentò in Vaticano in compagnia di Achille: il pontefice scaricò sull’arcivescovo di Torino. La salma non poteva certo restare in eterno nella cantina del conte, così fu trasferita a Villefranche-sur-Mer, in un lazzaretto usato come deposito del pesce. Gruppi di curiosi cominciarono a sfilare e a fantasticare che nei pressi della bara, di notte, s’intravedevano figure sataniche e si udivano musiche spettrali. Anche per questo il corpo venne spostato e provvisoriamente seppellito accanto a un oleificio, i cui rifiuti però imbrattarono la tomba.

Nel 1844 l’interessamento del re, Carlo Alberto, smosse in parte la situazione e autorizzò perlomeno il trasporto civile in Italia, questo a patto che «nell’arrivo del detto cadavere si eviti, per quanto possibile, ogni pubblicità, e si tenga la cosa celata al pubblico». Il viaggio doveva rimanere segreto come un’operazione di controspionaggio. Il 17 aprile venne rilasciato un certificato che autorizzava la traslazione, ciò affinché potesse «trovarsi questo cadavere preparato in modo tale a non poter arrecare danni a niuno». Danni. Il cadavere. La bara fu portata nell’interno genovese, in Val Polcevera, a San Biagio, sotto la terra dello stesso orto che il giovane Nicolò aveva zappato quarant’anni prima.

Per poter traslare i resti definitivamente a Parma, frattanto, Achille si era rivolto direttamente a Maria Luisa d’Austria, e per oliare il clero aveva organizzato anche una messa riparatrice. Maria Luisa, che a Parma era duchessa regnante, diede il benestare purché lo desse anche il vescovo, e pareva fatta. Restava inteso che l’inumazione doveva avvenire in terra sconsacrata. Le autorità genovesi autorizzarono il trasporto nella provincia parmense, a Gaione, dove ci fu una nuova sepoltura provvisoria nella sagrestia della parrocchia. Il corpo, però,vi rimase parcheggiato per i successivi trentadue anni: solo nel 1876, quando Achille ne compì giusto cinquanta, fu reso ufficialmente noto il parziale annullamento del decreto del vescovo di Nizza.

Le spoglie di Paganini furono finalmente interrate nel cimitero di Parma, nella tomba di famiglia. E sembrava finita davvero. Ma il violinista praghese Frantisek Ondricek, nel 1893, chiese e ottenne di poter visionare la salma o ciò che ne restava, questo nell’ossessiva convinzione che vi fosse un nesso tra la fisionomia e il talento. Si ritrovò a scrutare un mucchietto di ossa. «Mi resta solo la speranza» aveva scritto Paganini durante i suoi ultimi giorni «che dopo la mia scomparsa finiscano le calunnie, e che quanti mi hanno crudelmente criticato, per il mio successo, lascino riposare le mie ceneri.»

Nel 1940, nel centenario della morte, venne disposta una nuova ricognizione. Mentre un fotografo si apprestava a ritrarre i resti di Nicolò Paganini – favoleggiarono le cronache – si scatenarono improvvisamente tuoni e fulmini, e il poveretto dovette fuggire terrorizzato.
E speriamo che sia vero.

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Le pagine precedenti sono tratte da Misteri per orchestra, il nuovo libro di Filippo Facci, in uscita per Mondadori.
Giornalista e scrittore, Facci scrive per Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia ed è un blogger del Post. È autore di Di Pietro, La storia vera.

 

foto di DON EMMERT/AFP/Getty Images