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  • Domenica 3 aprile 2011

Efraim Diveroli, trafficante d’armi internazionale a vent’anni

La storia di due giovani americani che si misero in guai grossi - per conto degli Stati Uniti d'America

di Giovanni Zagni

Nel film del 2005 Lord of War, il personaggio di Nicholas Cage era Yuri Orlov, di mestiere trafficante di armi. Orlov lavora da solo, gira per il mondo, stringe la mano ai dittatori africani più stravaganti e, soprattutto, parla usando un sacco di ciniche frasi ad effetto, come quella che apre il film: «C’è un’arma da fuoco ogni dodici persone sul pianeta. La domanda è: come armiamo le altre undici?»

Efraim Diveroli è il protagonista di una storia come quella di Yuri Orlov (che si dice ispirata a sua volta da molte altre biografie di trafficanti d’armi), tra ufficiali corrotti, spedizioni ai quattro angoli della terra e sterminati depositi dell’est Europa pieni zeppi di armi. Con una differenza, che la rende ancora più surreale del completo bianco e nero di Nicholas Cage nell’Africa subsahariana: la sua età. Efraim ha vinto una serie di contratti con il Pentagono, per il valore di circa 300 milioni di dollari, all’età di 22 anni. In un lungo articolo su Rolling Stone, Guy Lawson si occupa della sua storia – emersa la prima volta sul New York Times nel 2008 – che è lunga, bella e complicata, e soprattutto non è ancora finita.

Una tradizione di famiglia
Efraim Diveroli abita a Miami, in Florida, e sembra lo stereotipo del ragazzone americano: è il pagliaccio della classe, un po’ sovrappeso, sboccato e sbruffone, con nessun senso del limite e senza nessuna paura. Suo padre e suo zio vendono materiali ed equipaggiamento alla polizia locale. Quando viene cacciato da scuola, a sedici anni, va a lavorare per lo zio Bar-Kochba Boteach, che ha una ditta di armi con sede a Los Angeles. Inizia subito a viaggiare su e giù per il paese facendo il rappresentante per lo zio, perché ha ben chiaro in testa che vuole seguire la tradizione di famiglia. Vuole vendere armi e vuole anche diventare molto ricco. Due anni dopo litiga con lo zio per una questione di soldi, torna a Miami e prende in gestione una società di comodo creata da suo padre, la AEY Inc. Dopo qualche mese, a 19 anni, ne è diventato presidente. Siamo nel 2005.

Fu allora che Efraim capì che il modo migliore per fare davvero tanti soldi era quello di scegliersi un solo cliente: quello che non era molto interessato a risparmiare, faceva ordini enormi e aveva esattamente bisogno di piccole ditte come la AEY per operazioni dai contorni poco chiari. Il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti.

I contratti pubblici del Dipartimento sono visibili sul sito FedBizOpps, che a dispetto del nome è un sito ufficiale governativo. Efraim cominciò ad esplorarlo con il portatile dalla sua stanza in affitto a Miami. Il capitale iniziale glielo fornì un fabbricante di mitragliatrici dello Utah che aveva lavorato con suo padre. Con quei soldi iniziò a partecipare alle aste a cui si presentavano grandi società come Northrop Grumman, Lockheed e BAE Systems. Non era un produttore e non intendeva diventarlo: la sua strategia era quella di cercare in giro i prezzi più bassi per i prodotti che servivano alla Difesa, presentare un’offerta più bassa di quella delle grandi aziende e cercare di guadagnare sulla differenza. I primi contratti che vinse furono per elmetti e munizioni per le forze speciali: piccole commesse, ma necessarie per accumulare l’esperienza richiesta per accedere agli appalti più importanti.

L’amministrazione Bush aveva iniziato a appaltare ad aziende private quasi ogni cosa connessa allo sforzo militare, dalla costruzione e gestione delle basi militari alla protezione dei diplomatici. I contratti militari con i privati aumentarono da 145 miliardi di dollari nel 2001, quando Bush divenne presidente, a 390 miliardi nel 2008. Le regole federali per l’assegnazione degli appalti erano spesso ignorate o evitate, per la gioia dei giganti del settore come Raytheon e Lockheed Martin. Ma anche le piccole aziende, secondo le direttive dell’amministrazione, dovevano avere una quota fissa delle commesse. Era il momento ideale per entrare in affari.

Efraim Diveroli nel 2008, a 21 anni (AP Photo)

Il socio
Efraim si vantava dei suoi guadagni quando si trovava con gli amici a suonare la chitarra e fumare marijuana in spiaggia. Raccontava come andavano gli affari ed era euforico quando concludeva qualcosa di grosso. Un giorno prese da parte David Packouz, di qualche anno più grande di lui e conosciuto nella grande sinagoga di Miami che frequentavano entrambi, e gli disse che aveva bisogno di un socio per le sue attività. Anche David commerciava via internet in piccole compravendite di tessuti: affari da mille o duemila dollari l’uno. Lavorava come massaggiatore per arrotondare e non aveva ancora ben chiaro cosa fare di se stesso, a parte un vago sogno di sfondare nel mondo della musica. Qualche anno prima, i suoi genitori erano così preoccupati per il futuro del ragazzo che lo inviarono in una scuola in Israele per ragazzi con problemi di droga. Non ottennero il risultato sperato: David ricorda ancora l’esperienza quasi mistica che visse quando prese acidi in riva al Mar Rosso.


David accettò di lavorare per Efraim a novembre del 2005, assunto come responsabile della clientela. Lavoravano intorno al tavolo del salotto dell’appartamento in affitto di Efraim. Ogni mattina si svegliavano, iniziavano a fumare e si sedevano tra montagne di carte e contratti.

I funzionari militari del Dipartimento della Difesa si dimostrarono interlocutori molto malleabili, soprattutto quando si trattava di fornire mitragliatrici all’esercito colombiano o elmetti alle forze irachene. Efraim era un ottimo negoziatore e li convinceva spesso a sostituire gli ordini previsti dai contratti con imitazioni più scadenti. Al telefono con il Pentagono, dimostrava un talento da attore consumato. Rispondeva con “sissignore” e “nossignore”, se questo serviva a fare buona impressione su qualche ufficiale affezionato all’etichetta; poteva mettersi a piangere al telefono e dipingere scenari di figli affamati e mogli che lasciavano la casa, se un funzionario gli comunicava che l’affare rischiava di non riuscire.

Quando la coppia, più o meno una volta alla settimana, staccava dal lavoro per andarsi a rilassare a South Beach, la meta preferita erano i locali con il karaoke. Tra una canzone e l’altra, i due sniffavano la cocaina che Diveroli teneva in un proiettile di plastica con la punta svitabile.

Gestire tutto il lavoro in due non era facile. La AEY Inc. non riuscì a portare a termine diverse commesse e iniziò a ricevere valutazioni negative nelle valutazioni dei fornitori stilate dal Pentagono, ed Efraim dovette correre ai ripari. Per aiutare a gestire il lavoro amministrativo, chiamò per qualche tempo sua zia, che in lunghe telefonate alla mamma di Efraim, senza curarsi della presenza del ragazzo, prediceva un avvenire cupo per il nipote. Lui alzava la testa dalle carte, iniziava a urlare e a insultarla, ma non aveva nessuna intenzione di fermarsi.

L’affare da 300 milioni di dollari
Sette mesi dopo aver iniziato a lavorare insieme, a giugno 2006, i due ragazzi volarono a Parigi per l’Eurosatory, una delle più grandi esposizioni mondiali nel settore delle armi. A Parigi avevano l’occasione di incontrare di persona Heinrich Thomet, che una volta aveva fatto da intermediario in un’ottimo affare di munizioni per le forze speciali USA di stanza in Germania. Thomet era un elegantissimo svizzero dai modi signorili e con l’aspetto di un divo del cinema. Denunciato da Amnesty International per aver commerciato in armi con lo Zimbabwe nonostante le sanzioni della comunità internazionale, sotto osservazione da parte degli Stati Uniti per affari sospetti tra la Serbia e l’Iraq, lo svizzero aveva un gran bisogno dei due ragazzi che si aggiravano con aria spaesata tra i carri armati e i droni di ultima generazione. Attraverso la AEY, avrebbe potuto avere la sua parte nei grandi contratti offerti dal Pentagono. L’esperienza non gli mancava: era un esperto nella creazione di società di comodo e di conti nei paradisi fiscali, che gli servivano per gestire la sua ampia rete di relazioni nell’Europa dell’est. David e Efraim non sapevano che, pochi anni dopo, sarebbe stato uno dei responsabili della loro rovina.

Il 28 luglio del 2006, il comando logistico dell’esercito americano con sede a Rock Island, Illinois, postò sul sito un documento di 44 pagine intitolato “A Solicitation for Nonstandard Ammunition”. Rispetto ai soliti avvisi su fbo.gov, questo aveva qualcosa di particolare. Con quel singolo documento, l’esercito cercava una quantità enorme di munizioni: cartucce per AK-47, fucili, granate, mortai, razzi terra-aria. Ce n’era abbastanza per creare un esercito. E in effetti, così era. L’amministrazione Bush, mentre l’opinione pubblica giudicava la guerra in modo sempre più critico, destinava milioni di dollari alla riorganizzazione dell’esercito afghano senza chiedere fondi al Congresso, senza rilasciare conferenze stampa, senza iniziare un dibattito pubblico. L’appalto era visibile solo su FedBizzOpps e sarebbe andato a un singolo contraente. Gli interessati se ne sarebbero accorti subito, il resto dei cittadini probabilmente mai.

Passarono alcuni minuti prima che Diveroli si accorgesse della nuova asta. Chiamò immediatamente Packouz: era la loro occasione, il salto di qualità che aspettavano. Al momento di riorganizzare i nuovi eserciti nazionali dell’Iraq e dell’Afghanistan, gli Stati Uniti avevano bene in mente che c’era un unico posto dove si sarebbero potute prendere le armi e le munizioni: il crollo dell’Unione Sovietica aveva reso inutili interi magazzini militari nei paesi dell’ex blocco orientale. Ma avevano bisogno di aziende che li aiutassero ad aggirare gli ostacoli e le difficoltà senza fare troppe attenzioni a sottigliezze legali, muovendosi nel mercato “grigio” dei trafficanti, dei responsabili militari corrotti e dei signori della guerra: la AEY era perfetta, e Diveroli lo sapeva.

Packouz iniziò a contattare per telefono o via mail decine di produttori di armi in Ucraina, Ungheria, Bulgaria, per capire chi avrebbe potuto fornire i materiali e a quale prezzo, prima di presentare la sua offerta per l’appalto del Pentagono. Nel frattempo, Thomet muoveva i suoi contatti in Albania. Pochi minuti prima della scadenza del contratto, dopo un mese e mezzo di lavoro febbrile, la direzione di AEY Inc., nelle persone di due ragazzi di poco più di vent’anni, corse attraverso la città in macchina e si presentò agli uffici postali di Miami Beach con una montagna di carte su cui era scarabocchiata la loro offerta: 298.000.000 di dollari.

Le fabbriche di Mao
Non è chiaro come sia potuto succedere che la AEY si sia aggiudicata il contratto, a gennaio del 2007. Il Pentagono sembrava aver dimenticato, o non aver tenuto in conto, le valutazioni negative e le forniture mai arrivate. Nessuno chiese l’età a Diveroli quando incontrarono i funzionari dell’esercito qualche giorno dopo aver vinto l’appalto e rividero al rialzo le valutazioni sulla ditta. O meglio, una spiegazione c’era: l’offerta della AEY era di decine di milioni di dollari più bassa di quelle dei giganti del settore.

Iniziarono ad arrivare i primi ordinativi: per iniziare, 600.000 dollari di granate e munizioni; pochi giorni dopo, quasi 50 milioni di dollari di armamenti, tra cui 100 milioni di cartucce per l’AK-47 Kalashnikov e più di un milione di granate per lanciarazzi. Per quanti contatti avessero stabilito prima di presentare l’offerta, le quantità enormi richiedevano che Diveroli si mettesse in giro per tutto l’est Europa alla ricerca di altri fornitori, lasciando a Packouz il gigantesco compito di gestire l’aspetto amministrativo dell’affare. Passava i suoi giorni al telefono con gli uffici diplomatici americani in Asia centrale, chiedendo di parlare con gli addetti militari. Avevano bisogno di supporto per i permessi di trasporto e per la logistica, diceva; stavano lavorando duro per collaborare a vincere la Guerra al Terrore. Tutti si dimostravano ansiosi di dare una mano.


I voli per Kabul cominciavano ad essere organizzati nei dettagli, partivano le prime spedizioni dall’Ungheria o dalla Bulgaria, la AEY assumeva persone trovate su internet o in sinagoga per dare una mano a sbrigare le pratiche. I due ragazzi si trasferirono nel lussuoso complesso del Flamingo, a Miami Beach, che oltre alla Jacuzzi, alle feste e alle grandi terrazze aveva l’attrattiva di essere la residenza del loro spacciatore, Raoul. Ogni tanto c’era qualche problema, che dà l’idea di quanto tutta questa storia sia incredibile e assurda. In Kirghizistan il governo russo cercò di intralciare le spedizioni e un aereo carico di quasi 5 milioni di munizioni per l’AK-47, partito dall’Ungheria, venne sequestrato sulla pista. La spedizione era una pedina di scambio in una situazione di stallo tra il governo della Russia e gli USA: Putin non vedeva di buon occhio che la NATO si espandesse in Kirghizistan, e il Kirghizistan voleva che gli Stati Uniti pagassero un affitto più alto per usare il loro aeroporto come tappa essenziale nel tragitto verso l’Afghanistan.

Così l’aereo di David e Efraim venne sequestrato dagli alleati di Putin nel Kirghizistan, e per ogni giorno di permanenza sulla pista il proprietario doveva pagare 300.000 dollari di multa. I due ventenni non erano lasciati a se stessi, però, e non ebbero bisogno di lasciare Miami per sbloccare la situazione: quando la notizia raggiunse Washington, partì in missione per liberare il cargo in ostaggio il Segretario della Difesa degli Stati Uniti, Robert Gates.

La tranche più grossa del contratto riguardava decine di milioni di munizioni per l’AK-47. Nei termini dell’accordo, il Pentagono faceva capire chiaramente che la qualità dei materiali non era importante. Bastava che funzionassero, il nuovo esercito afghano non aveva bisogno di armi di ultima generazione. Sfruttando i contatti di Thomet, la AEY intendeva fare il grosso del rifornimento in Albania, che di munizioni per il Kalashnikov ne aveva ereditate così tante dalla dittatura comunista che il presidente albanese, tempo prima, era volato a Baghdad con la proposta di regalarne qualche tonnellata all’esercito americano.

Le munizioni venivano comprate da una società di comodo posseduta da Thomet, la Evdin con sede a Cipro, e girate poi all’AEY, una tipica operazione usata nel commercio di armi per mascherarne la provenienza. Ma c’erano due problemi. Primo: Diveroli aveva sbagliato a valutare l’aumento del prezzo del petrolio, che incideva parecchio sui costi di trasporto. Le pesanti casse in cui erano stoccate le munizioni in Albania erano di troppo. La AEY ottenne dal Pentagono l’autorizzazione a usare scatole di cartone. L’affare si complicava, e Efraim mandò a Tirana un altro dei ragazzi della sinagoga per trovare qualcuno che potesse produrre migliaia e migliaia di scatole di cartone per loro. Il secondo problema, più difficile da risolvere, era che le munizioni albanesi venivano dalla Cina. Erano state prodotte nelle fabbriche di Mao tra il 1962 e il 1974. Gli Stati Uniti avevano dichiarato un embargo sulle armi cinesi sin dal 1989, dopo il massacro di Tienanmen. Violare un embargo internazionale era troppo anche per l’ampio margine di illegalità tollerato dal Dipartimento della Difesa. Diveroli mandò una mail chiedendo al Dipartimento di Stato se poteva procedere lo stesso con le munizioni albanesi: dopotutto, erano state fabbricate più di quindici anni prima che l’embargo cominciasse. La risposta fu no.

Ma era troppo tardi per fermarsi. Il problema erano le casse, coperte di scritte in cinese? Bastava cambiare le casse, e questo faceva già parte del programma per abbattere i costi di trasporto. Il compagno di sinagoga di Efraim, Alex Podrizki, trovò un produttore di cartone, Kosta Trebicka, che avrebbe potuto fornire le scatole in tempo e si sarebbe anche fatto carico di reimballare i milioni di munizioni. Packouz mandò una mail a Trebicka per istruirlo nel dettaglio su come effettuare gli imballaggi in modo che la provenienza fosse il più possibile nascosta. Con un esame attento, l’origine cinese si poteva ancora scoprire, perché ogni cartuccia ha stampato il suo luogo di provenienza, ma forse a Kabul non avrebbero fatto storie.

Fine dei giochi
Le quote dell’affare albanese erano stabilite da tempo: la AEY pagava a Thomet poco più di 4 centesimi a cartuccia, per rivenderle al Pentagono a 10 centesimi.  Chiamando da Miami, Diveroli chiese a Trebicka di controllare il prezzo a cui l’intermediario svizzero comprava dagli albanesi. Thomet comprava a due centesimi. Diveroli diventò furioso. Guadagnare il 100% solo per fare da intermediario era troppo, per cui chiese a Trebicka di fare pressioni in Albania per escludere Thomet dall’affare. Eliminandolo, ci sarebbero stati più soldi per tutti, e il fabbricante di cartone era ben felice di collaborare. Ma quando incontrò il ministro della difesa albanese, ottenne l’effetto opposto: fu lui ad essere escluso dall’accordo. Il lavoro di reimballaggio sarebbe stato portato a termine da un amico del figlio del primo ministro albanese.

Né Efraim né Trebicka sospettavano che Thomet stesse pagando grosse somme agli albanesi per mantenere l’affare così com’era. La AEY non veniva danneggiata, ma non poteva neppure impedire che Trebicka venisse escluso. Mesi dopo, a febbraio 2008, Trebicka fu trovato morto in Albania a circa quaranta metri dal suo SUV, solo leggermente ammaccato, in una strada dell’interno. Le autorità rubricarono il fatto come incidente e non ritennero di dover svolgere ulteriori indagini.

Intanto, tra Diveroli e Packouz iniziarono ad esserci attriti sempre più frequenti. Efraim rimproverava al socio di dedicare meno tempo all’azienda, ora che le spedizioni erano avviate, e voleva rivedere i termini del loro accordo. Packouz firmò un accordo che diminuiva la sua parte, uscì dalla AEY e fondò una ditta concorrente, la Dynacore Industries. Iniziò a girare armato. C’era la possibilità che Diveroli trovasse più conveniente farlo uccidere, piuttosto che pagargli la sua parte nell’affare afghano.


Il contratto da 300 milioni di dollari aveva finito non solo per mettere i due ragazzi l’uno contro l’altro, ma anche per creare loro nemici potenti. Dopo alcune denunce contro la AEY presentate al Dipartimento di Stato dai concorrenti nel commercio delle armi, a fine agosto del 2007 gli agenti federali ispezionarono gli uffici dell’azienda a Miami Beach e sequestrarono i computer.

Le email dei due ragazzi erano incredibilmente esplicite e dimostravano che erano perfettamente consapevoli di violare l’embargo. Non c’erano margini per negare: Packouz e Podrizki decisero di collaborare. Diveroli tenne duro, continuò a vendere munizioni cinesi in Afghanistan, e l’esercito, incredibilmente, continuò ad accettarle. Forse la storia si sarebbe sgonfiata e i ragazzi avrebbero evitato di essere incriminati per i reati maggiori, ma a marzo 2008 il New York Times pubblicò una lunga inchiesta che mise davanti all’opinione pubblica il traffico poco chiaro di armi che la AEY continuava a condurre per conto degli Stati Uniti. Fonte principale dell’inchiesta era Trebicka, che poco prima di morire aveva iniziato una crociata contro la corruzione nell’amministrazione pubblica del suo paese.

A giugno 2008, una giuria federale di Miami incriminò Diveroli, Packouz e altri due collaboratori dell’AEY per settantuno capi di imputazione, tra cui frode e cospirazione.

Epilogo
Nel gennaio del 2009 si concluse il primo dei processi. David Packouz fu condannato a sette mesi di arresti domiciliari dopo aver detto al giudice di essere profondamente pentito delle sue azioni. Diveroli, invece, fu condannato a quattro anni: nel corso del suo processo, anche sua madre e un rabbino locale dissero che il ragazzo di 23 anni si meritava di andare in prigione per un po’. Nessun funzionario pubblico ha dovuto rendere conto in tribunale di aver reso possibile la spedizione di armi cinesi da parte di un’azienda diretta da due ventenni.

Negli ultimi due anni, in attesa del giudizio definitivo in diversi processi, Efraim è rimasto a piede libero. Secondo il Miami New Times dell’agosto scorso, ha continuato a vendere armi attraverso almeno quattro nuove compagnie, tra cui la AmmoWorks, che concluse altri due contratti governativi per un totale di dieci milioni di dollari. Ad agosto scorso è stato arrestato di nuovo per aver tentato di vendere armi a dei compratori che si sono rivelati essere, in realtà, agenti federali sotto copertura. Solo il 28 marzo, meno di una settimana fa, l’esercito ha concluso l’esame della AEY e ha emesso il verdetto di interdizione definitiva e la sospensione dei suoi responsabili per un periodo variabile dai dieci ai quattordici anni.

Nella scena finale di Lord of War, Orlov è in piedi su una distesa di bossoli, in giacca e cravatta, per dispensare i suoi ultimi consigli. Ha perso tutto, figli, famiglia e dignità, ma non è intenzionato a smettere. Non ci sono segnali per credere che a Efraim andrà diversamente. Uno delle sue frasi preferite, che gli piace ripetere con la voce grossa quando è in vena di vantarsi, è «Venditore di armi una volta, venditore di armi per sempre».

Foto: AP Photo