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  • Lunedì 21 marzo 2011

Tutti i dubbi sulla guerra in Libia

Un riassunto per punti delle principali critiche mosse all'intervento militare

di Francesco Costa

Libyan rebels wave their flag on top of a wrecked tank belonging to Moammer Khaddafi's forces on the western entrance of Benghazi on March 20, 2011. The initial part of an international operation to enforce a no-fly zone over Libya "has been successful" and the government's offensive on Benghazi has been stopped, top US military commander Michael Mullen said. AFP PHOTO/PATRICK BAZ (Photo credit should read PATRICK BAZ/AFP/Getty Images)
Libyan rebels wave their flag on top of a wrecked tank belonging to Moammer Khaddafi's forces on the western entrance of Benghazi on March 20, 2011. The initial part of an international operation to enforce a no-fly zone over Libya "has been successful" and the government's offensive on Benghazi has been stopped, top US military commander Michael Mullen said. AFP PHOTO/PATRICK BAZ (Photo credit should read PATRICK BAZ/AFP/Getty Images)

La risoluzione 1973 dell’ONU, approvata venerdì notte dal Consiglio di sicurezza, autorizza la comunità internazionale a prendere “ogni misura necessaria”, esclusa l’invasione di terra, per proteggere i civili libici e disarmare il regime di Muammar Gheddafi. Dei quindici membri del Consiglio di sicurezza, hanno votato a favore Bosnia, Colombia, Francia, Gabon, Gran Bretagna, Libano, Nigeria, Portogallo, Sudafrica e Stati Uniti. Gli altri cinque paesi membri si sono astenuti: sono Russia, Cina, India, Germania e Brasile. In attuazione della risoluzione 1973, da sabato pomeriggio una coalizione internazionale ha colpito vari obiettivi militari sul suolo della Libia. Fanno parte di questa coalizione Francia, Stati Uniti, Gran Bretagna, Italia, Emirati Arabi Uniti, Danimarca, Canada, Belgio, Grecia, Norvegia, Qatar e Spagna.

L’intervento è stato chiesto a più riprese dagli stessi ribelli libici e dal Consiglio nazionale libico, l’organo rappresentativo delle forze che si oppongono al regime, e dalla Lega Araba, che più volte hanno denunciato l’estensione della violenze di Gheddafi e le sue dichiarate intenzioni di attuare una “vendetta casa per casa” contro i ribelli. Ora che le operazioni militari sono cominciate, però, emergono anche i dubbi non pregiudiziali sull’efficacia della missione: la distruzione dell’arsenale del regime e delle sue difese aeree può aumentare la pressione su Gheddafi e fermarne l’avanzata ma non è priva di lati poco chiari, che nelle ultime ore stanno occupando le pagine dei commenti sui giornali di tutto il mondo.

È troppo tardi?
Dalla prima volta in cui Gheddafi ha aperto il fuoco sui manifestanti all’istituzione della no-fly zone sono passati 22 giorni. Sono stati giorni di grandi attività diplomatiche volte a isolare e fermare il regime ma che Gheddafi ha utilizzato per mettere in piedi la sua riscossa: era accerchiato a Tripoli ed è avanzato fino ad arrivare a Bengasi. Molti opinionisti ed esperti sostengono che la no-fly zone sarebbe stata molto utile due settimane fa, quando avrebbe impedito a Gheddafi di bombardare i manifestanti: oggi, invece, le truppe di terra del regime sono sparpagliate quasi in tutto il paese. Colpirle dall’alto si è fatto estremamente più pericoloso e delicato. Il New York Times dedica molto spazio a queste obiezioni, oggi, e tra i perplessi cita il senatore repubblicano John McCain e il senatore democratico John Kerry. Lo scrive anche Josh Marshall su Talking Points Memo: “Il miglior scenario possibile oggi è semplicemente mantenere sicura Bengasi e proteggere i suoi abitanti dalla vendetta: in questo modo Gheddafi avrebbe potere su tutta la Libia tranne che su una città, che non ha un governo e si trova una specie di limbo. E poi che si fa?”

Si poteva tentare la via diplomatica?
Questa è una domanda a cui non è semplice rispondere, ma sappiamo che molto è stato tentato: Gheddafi è stato avvertito più volte, le violenze sono state condannate dalla comunità internazionale e dalla Lega Araba, gli inviti a cessare il fuoco e aprire un negoziato con i ribelli sono stati molti e ripetuti. Molti paesi hanno congelato i beni di Gheddafi, il 27 febbraio l’ONU ha approvato un primo pacchetto di sanzioni economiche e politiche. La stessa no-fly zone non è stata operativa per venti ore, subito dopo l’autorizzazione dell’ONU: e il cessate il fuoco annunciato subito dalle forze di Gheddafi si è rivelato essere un bluff. Di fatto, la comunità internazionale ha esaurito le armi diplomatiche a sua disposizione e, come abbiamo detto prima, questo sforzo rischia di aver compromesso l’efficacia dell’intervento militare. Solo Gheddafi, in questo momento, può decidere se e quando aprire un negoziato con i ribelli e la comunità internazionale.

Qual è l’obiettivo della missione?
La risoluzione 1973 lo dice chiaramente: l’obiettivo è proteggere i civili e far cessare le violenze. Quindi l’obiettivo non è liberarsi di Gheddafi: la cosa è stata ribadita ieri dai vertici dello stato maggiore statunitense. “Gli obiettivi di questa missione sono limitati e non prevedono la sua uscita di scena: la missione può essere completata anche con la permanenza al potere di Gheddafi” ha detto ieri l’ammiraglio Mullen, capo di stato maggiore. Detto questo, il problema è: si possono proteggere i civili e far cessare le violenze senza liberarsi di Gheddafi? Ieri il dittatore libico ha diffuso un messaggio tutt’altro che arrendevole, ha detto che distribuirà un milione di armi ai cittadini libici e che “le potenze coloniali e cristiane” finiranno per “morire” ed essere sconfitte. Nel frattempo si continuava a combattere a Bengasi e Misurata. Liberarsi di Gheddafi potrebbe diventare un passo necessario alla fine delle violenze e la protezione dei civili, ma si pongono nuovamente tutti i problemi legati al portare avanti un’azione del genere dall’alto e non via terra.

Chi guida la missione?
È la critica mossa oggi da un editoriale del Wall Street Journal, che pure si dice favorevole all’intervento. Non solo gli obiettivi non sono perfettamente chiari: non lo è nemmeno la catena di comando. A domanda diretta, l’ammiraglio Mullen ieri non è stato in grado di rispondere su chi guida l’intervento militare. Non sono gli Stati Uniti, che dicono che “la no-fly zone sarà condotta dai nostri alleati internazionali”, non è la Francia, non è il Qatar. Far condurre una guerra da un “comitato globale”, però, presenta molte insidie: sul fronte dell’attribuzione delle responsabilità, su quello della rapidità delle decisioni e sul coinvolgimento dei parlamenti dei vari paesi che hanno deciso di partecipare all’intervento militare.


L’intervento può essere controproducente?
Sebbene sia chiaro che l’intervento militare, per quanto ricco di dubbi, può rallentare e forse fermare del tutto le rappresaglie di Gheddafi nei confronti dei ribelli libici, non è chiaro come evolverà la posizione dell’intera area col passare dei giorni. Oggi il Corriere della Sera riporta le parole di Roberto Formigoni, secondo cui «c’è il forte rischio che tutto sia interpretato come un rigurgito imperialista e colonialista». Le differenze tra l’Iraq e la Libia sono molte e molto rilevanti: il mandato dell’ONU, il multilateralismo internazionale, l’assenza di un’invasione di terra, le richieste e il benvenuto dei civili libici. Il rischio di cui parla Formigoni esiste, però: in questa fase, sembra sia decisivo l’atteggiamento delle istituzioni arabe che hanno dato sostegno e “copertura politica” all’intervento militare. Parliamo del Libano, del Qatar e degli Emirati Arabi Uniti. E della Lega Araba, che prima ha chiesto l’intervento e poi, ieri, si è lamentata dei bombardamenti. Proteggere i civili e sostenere i ribelli non sono due obiettivi coincidenti, fa notare oggi un editoriale del Guardian: la tensione tra questi due scopi rischia di far venir meno all’intervento militare il sostegno delle istituzioni locali. “Cosa succederà quando una bomba cadrà sul posto sbagliato?”, chiede James Fallows sull’Atlantic.

Chi sono i ribelli?
Sappiamo chi sono i ribelli, chi li ha armati, cosa vogliono? Detto che la risoluzione dell’ONU non schiera la comunità internazionale dalla parte dei ribelli ma è volta a fermare le violenze sui civili, alcune cose le sappiamo. Sappiamo che dei ribelli fanno parte persone di estrazione molto variegata: storici oppositori politici del regime, attivisti per i diritti umani, ex membri dell’esercito e del regime, membri dei gruppi islamici che non avevano un ottimo rapporto col regime. I ribelli si sono dati un’organizzazione e un volto politico, al contrario di quanto era accaduto in Egitto e in Tunisia, formando il Consiglio nazionale libico. Le armi che possiedono sono state sottratte all’esercito libico e ai suoi depositi durante l’avanzata delle prime settimane di protesta

Cosa viene dopo Gheddafi?
Anche questo è un problema che rischia di porsi di qui alle prossime settimane. Se è vero che si può ottenere l’arresto delle violenze anche senza l’uscita di scena di Gheddafi, se questa dovesse avvenire quale sarebbe il futuro della Libia? Il Consiglio nazionale libico, l’organo che rappresenta i ribelli, è stato riconosciuto come interlocutore ufficiale dalla Francia, dal Portogallo e soprattutto dalla Lega Araba. Anche Italia, Gran Bretagna e Stati Uniti hanno avuto contatti informali con i ribelli. È indubbio però che una parte dei cittadini libici, soprattutto a Tripoli, continua a stare dalla parte di Gheddafi. Così come in Egitto e in Tunisia, una volta caduto il regime il principale problema sarà mettersi alle spalle la dittatura e costruire delle istituzioni all’interno delle quali potersi confrontare in modo non violento.

E se arrivano migliaia di immigrati?
Questa è l’obiezione della Lega Nord e di qualche pezzo del centrodestra italiano ma sembra essere la più inconsistente, per alcune ragioni. Il ministro Maroni ha detto che già da diversi giorni le coste libiche sono prive di alcun controllo e soltanto il clima di caos ha impedito che ripartissero i viaggi verso l’Italia: se ci sarà un esodo, sarà probabilmente a causa di quanto accaduto prima e non dopo l’intervento militare. Da questo punto di vista, anzi, la partecipazione all’intervento permette all’Italia di avere qualche voce in capitolo nell’eventualità in cui ci si trovi ad affrontare con le nazioni alleate il problema dei profughi e, come spiegava ieri il ministro La Russa, questa è forse la ragione fondamentale che ha spinto il governo a partecipare alla missione. Infine, appunto, in quel caso non si tratterebbe più di immigrati clandestini bensì di profughi di guerra: il loro status è stabilito da accordi internazionali cui l’Italia non può sottrarsi, lo stesso ministero degli Interni li definisce “categoria protetta”.

Possiamo essere colpiti?
Sul Corriere della Sera di oggi, Antonio Panebianco scrive che “siamo il Paese più vicino e il più esposto alle ritorsioni”. Sia Berlusconi che La Russa hanno escluso che l’arsenale libico possa essere in grado di colpire il territorio italiano, ma nessuno può essere certo che l’Italia sia al sicuro da atti di terrorismo come quelli promossi o ispirati da Gheddafi durante i quarant’anni del suo regime.

foto: PATRICK BAZ/AFP/Getty Images