Quando Vendola divenne Vendola

Il 23 febbraio 1985 il potenziale futuro leader del centrosinistra prese la parola a un congresso della FGCI

Quando Massimo D’Alema esprime con sarcasmo le sue risentite perplessità sul fatto che Nichi Vendola rappresenti il rinnovamento della politica qualche argomento concreto ce l’ha. A cercare negli archivi dei quotidiani nazionali si scopre che il governatore della Puglia ha cominciato a essere citato nella storia politica nazionale esattamente un quarto di secolo fa, nel febbraio del 1985 (come “Nic”). Il 24 febbraio di quell’anno, ultimo giorno del congresso della FGCI a Napoli, Repubblica ospitò un articolo di Alberto Stabile sui nuovi giovani comunisti.

Il fatto è che questi ragazzi della Fgci, nati nel 1968, i “post comunisti” li ha definiti qualcuno, non riconoscono la “centralità” della politica – pur facendo politica -; non credono nel potere totalizzante delle ideologie, pur proclamandosi comunisti; rifiutano – per dirla con uno di loro, Nic Vendola, doppia tessera dell’Arci-gay e della Fgci, protagonista di uno degli interventi più applauditi – una concezione della politica intesa come “alchimia del potere”.

Tre settimane dopo la FGCI nominò i suoi organismi dirigenti, di cui entrò a far parte a 26 anni Nichi Vendola, come responsabile per l’ambiente. Il suo ingresso nella Segreteria fu un effetto dell’intervento di Napoli, “uno degli interventi più applauditi”, che segnò di fatto la discesa in campo nella politica nazionale del futuro governatore della Puglia e oggi potenziale futuro candidato premier del centrosinistra, da quando Vendola ha messo i piedi nel piatto delle goffaggini del PD e ha di fatto convocato delle primarie al momento formalmente non previste. Ma torniamo al 1985.

Il 23 febbraio, a Napoli, Vendola sale sul palco e tiene un discorso “applauditissimo” e tuttora memorabile per quelli che c’erano. Non c’era ancora Vendola come lo conosciamo, allora: però c’era già. È infatti interessante leggere in quel testo – del quale il Post ha recuperato il manoscritto – le stesse visioni, lo stesso eloquio barocco e le stesse ispirate metafore che hanno portato Vendola dove è arrivato oggi.

La velocità non è solo un parametro con il quale misuriamo i nostri tempi, ma è un valore in nome del quale pieghiamo il tempo in rigide compatibilità, lo frantumiamo in orari convulsi e nevrotici, lo scandiamo anzi ci scandisce, con un tic tac estraneo e quasi beffardo. È l’orologio di questa organizzazione dei rapporti sociali che decide del mio tempo, annullando con feroce disinvoltura i tempi del mio corpo, dei miei bisogni, per esempio del mio bisogno di prendere tempo o di perdere tempo.
È un tempo ferito, il mio tempo: non mi mancano solo gli spazi nella città nemica e spaccata in mille fette di solitudine, mi manca il mio tempo, e ho sempre una fottuta paura di non essere, di non giungere “in tempo”. Il tempo della politica e il tempo della vita: che allucinante assenza di sincroni il tempo affannoso, dolente, insonne, di quella mia compagna malata di cancro. Il tempo di chi ha poco tempo. Il tempo del desiderio, di un desiderio che non vuole lasciarsi infilzare dalle dispotiche lancette del tempo della produzione o del tempo della morale: la mia voglia di amare quel ragazzo che amo, gridando al mondo intero che non è più “tempo” di amare nella vergogna, nella colpa, nel silenzio, nella paura, nella clandestinità, nella violenza, o di amare soltanto nella tremenda fretta di un incontro senza storia. L’etica e l’estetica del cespuglio, della lampo (lampo che ti folgora di caducità): anche lì tra quelle umanissime e ombrose fratte metropolitane il tempo troppo spesso è altro da te, È un tempo brutale.

Se volete leggerlo tutto, è qui: è interessante ed è l’inizio di una storia. Storia che colpì rapidamente i giornali, tanto che ancora Repubblica affidò subito a Stefano Malatesta un ritratto del nuovo personaggio, pubblicato col titolo “Il gay della FGCI” il 19 marzo.

Nichi Vendola ha 26 anni, è pugliese. Qualche giorno fa è stato eletto membro della segreteria nazionale della Fgci, la Federazione giovanile comunista. Ha un viso gradevole. In testa calza un berretto blu con visiera, da studente svedese. Intorno al collo è annodata una sciarpa di lana bianca. Porta al lobo sinistro un orecchino d’oro. Nichi Vendola è un gay, il primo attivista omosessuale entrato a far parte della dirigenza comunista. Dice senza asprezza polemica: “Sono sicuro che parlerai dell’ orecchino d’ oro. Ho già dato un’ intervista in cui raccontavo un po’ di cose, fatti personali e politici. Dopo ho avuto dei timori, credevo che ci fossero reazioni a Roma, nel partito. Invece i compagni sono stati benevoli. Mi hanno però avvertito: stai attento a non farti ingabbiare nel clichè, il gay alle Botteghe Oscure, eccetera. Prima c’ erano i funzionari infagottati nei doppipetti grigi tagliati male, con le cravatte stonate in raso. Adesso l’ omosessuale con l’ orecchino. Al congresso giovanile avevo un magnifico, luminescente papillon sopra una camicia a righe. Dì, vuoi che ti stringa la mano sotto il tavolo?”. Rispondo che il passaggio sotto le forche del commento becero è obbligato: cosa si vuole aspettare, finezze anglosassoni? L’umorismo in Italia, e anche altrove, è spesso di genere caserma, dovrebbe esserci abituato. Però mica posso far finta di essere venuto per le sue preclare virtù politiche di cui tutta l’Italia parla. Sono venuto perchè Vendola è il primo dirigente comunista gay dichiarato.

Che sia passato un quarto di secolo grazie al cielo un po’ si sente (l’articolo indeterminativo in “è un gay” è illuminante) e Vendola scrisse poi una lettera per correggere le parole su suo padre, ma è interessante come la questione dell’orecchino sul maggiore quotidiano della sinistra apparisse già così ingombrante e ci abbia messo 25 anni a chiudersi con la richiesta di Giovanni Valentini di sabato scorso che Vendola se lo tolga. Ma toglierlo significherebbe – come nota lo stesso Valentini – una rottura rispetto al se stesso del 1985 che Nichi Vendola non mostra di avere tra le sue priorità, a sentirlo oggi e allora.

La nostra identità dobbiamo “giocarcela” sul campo. Sul muro di un palazzone grigio di Bari, ho letto una frase scritta in vernice rossa in cattivo francese, ma il cui senso era inequivocabile. Dalla nervosa geografia urbana, tra graffiti e walkman e neon lividi e metallica solitudine, fin dentro il mio cervello, e spero, fin dentro il vostro cervello: quella frase era “Con amore, per il comunismo”.