Gipi su come ha cominciato a essere Gipi

Repubblica gli chiede di raccontare cos'è un graphic novel

L’inserto di cultura del sabato di Repubblica è aperto oggi da un servizio dedicato ai romanzi a fumetti (“Si chiamano graphic novel, sembrano fumetti ma hanno l’ambizione di occupare lo spazio del romanzo”), il cui ruolo e successo negli ultimi dieci anni è raccontato da un articolo di Benedetta Tobagi (sullo stesso tema, si veda anche qui). Per l’occasione, Repubblica ha anche chiesto (per la prima volta, ci pare) un testo a Gipi, illustratore fisso delle pagine culturali del giornale: il quale descrive le storie che ascolta e che ha voglia di raccontare.

È così che ho iniziato a disegnare storie a fumetti. C’erano storie intorno a me, che mi sembrava “importante” dover raccontare. Il cinema mi sembrava allora un regno talmente lontano e inarrivabile, per me che stavo alla periferia della periferia (che poi è una condizione mentale, mica un posto preciso) da doverlo scartare a priori. C’era la scrittura, ma per raccontare solo con le parole, dio sa quante forme e vocaboli e cultura in più mi sarebbero stati necessari.
Avevo questa cosa per le mani, però. Questo vizio rimastomi da quando ero bambino, quella spinta che mi faceva stendere sul pavimento di casa, mento sul foglio, lapis, mentre fuori, per strada rimbalzavano i palloni. Quel vizio lo avevo ancora: quello del disegno.

E guarda, c’era nel disegno una tale assenza di limiti! Potevo far incendiare la collina senza chiedere permessi, senza dover corrompere assessori o distrarre ambientalisti. Potevo prendere un cane e maltrattarlo e farlo correre giù per la discesa in lacrime di cane e potevo pure far restare l’Orco davanti alle fiamme, fin che scintille non gli toccassero i piedi e farlo correre via all´ultimo secondo. Anzi, meglio. Potevo farlo inciampare, e bruciare, rotolarsi in fiamme sul terreno con le foglie che s’appiccicano addosso e alimentano il rogo e poi potevo andare con lo sguardo in alto, sempre più lontano, fin che l’Orco fosse un punto, un fiammifero che brucia, giù sul suolo. Musica immaginaria. Fine. Potevo bruciare l’Orco. Di più: potevo bombardare il paese vicino, farvi scoppiare una guerra. Potevo prendere mio padre, che nessun attore avrebbe mai potuto interpretare, e narrarne gli scherzi più dolci. Potevo raccontare di amicizie immortali e spietate. Potevo fare tutto senza chiedere il permesso a nessuno.
Potevo raccontare storie in libertà. Spendendo in soldi zero, in fatica mille, ma in soldi zero. E soldi zero, lo sappiamo, vuol dire libertà.

Ma dopo aver raccontato e spiegato e fatto capire ai lettori la dimensione della sua soddisfazione ed eccitazione con quello che gli dà il disegno, Gipi non si trattiene da una perplessità: quella sul fatto che debba farsi una questione del decidere se siano romanzi, fumetti, storie, o cosa.

Ho cominciato così. Poi a quelle storie, qualcuno, per fare posto in una libreria, ha voluto dare un nome. Non ho potuto farci niente.