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L’urbanistica italiana mangiata dagli imbrogli

A Napoli e Milano, i fiori all'occhiello dell'urbanistica nazionale appassiscono nella cattiva esecuzione e negli affari loschi

La riqualificazione di Santa Giulia si è trasformata in una delle sentine più sordide degli affari milanesi degli ultimi anni

di Filippomaria Pontani

La capitale morale – è notizia di questi giorni – non se la passa meglio. Quella che avrebbe dovuto essere una pietra miliare del cammino verso l’Expo 2015, ovvero appunto la riqualificazione di Santa Giulia tramite un progetto di grande levatura architettonica e d’impatto inusitato su tutta la zona sud della città, si è trasformata in una delle sentine più sordide degli affari milanesi degli ultimi anni. Al centro dell’orrido sta, da pochi giorni, la scoperta che gli ipsissima loca destinati a promenades alberate e a lussuosi resorts erano in realtà gli obiettivi prediletti dello sversamento di rifiuti e liquami (Aversa a Rogoredo, con buona pace dei leghisti): il tutto, mentre dovevano avvenire nell’area imponenti opere di bonifica, sulla cui precisa paternità e gestione è partito un brutto scaricabarile fra amministrazioni diverse (Provincia, Comune, aziende municipalizzate etc.). Là dove le bonifiche sono state effettuate, ovvero nel limitrofo complesso Montecity, gli abitanti – i cui rampolli sono già stati iscritti a un asilo da inaugurarsi in settembre sui terreni contaminati – nutrono qualche comprensibile inquietudine sulla loro efficacia dinanzi allo scempio consumatosi a pochi metri fino a tempi recentissimi.

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Zoomando via dall’orrido, a un piano intermedio si collocano gli arresti per corruzione e tangenti di industriali (Giuseppe Grossi) e politici (l’assessore Rosanna Gariboldi, altrimenti nota come Lady Abelli), avvenuti già nell’autunno scorso tra lo scandolezzo di ministri e governatori; sullo sfondo si staglia la gravissima crisi finanziaria attraversata dal gruppo Zunino, tenutario dell’intero progetto e palesemente incapace ormai di condurlo in porto. La città ideale, il cuore dell’innovazione, del verde, il “volano di sviluppo polifunzionale e sostenibile” (così recitavano le didascalie della Biennale 2006), tutto questo è diventato una sorta di quartiere dormitorio privo di servizi e di urbanizzazione, assediato da un gigantesco terrain vague che non ha alcuna chance di essere completato (o certo non nel modo in cui si pensava in origine). Chi ha qualche dubbio può leggere qui.
Dell’area ex-Falck, che ha più volte cambiato destinazioni e possibili proprietari (museo dell’archeologia industriale; cordate texane o arabe; chi più ne ha più ne metta) è meglio tacere tout court, anche per scaramanzia: pare infatti che il mese scorso il progetto di Renzo Piano sia stato momentaneamente riesumato, nonostante le difficoltà economiche dei costruttori.

Di nuovo, lo scopo di queste righe non è la geremiade. Si è voluto solo illustrare, prendendo a esempio l’ambito dell’architettura – che è forse (al contrario dell’impressione che lasciano certe mostre) fra i più tangibili della nostra vita -come perfino i progetti “di eccellenza” di cui l’Italia si vanta nelle sedi più riconosciute, perfino le realtà più apparentemente “sicure”, presentate e garantite da ombrelli prestigiosi (nella fattispecie, la Biennale Internazionale d’Architettura di Venezia), poggino in realtà su fondamenta scivolose quando non criminali, e siano destinate in procedere di tempo a ben tristi sviluppi. Vedremo a fine agosto cosa ci riserverà la Biennale di mano nipponica: c’è davvero quanto mai bisogno, forse, che “people meet in (a clean) architecture”.

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