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  • Martedì 6 luglio 2010

Parlare di tutto, parlare di niente, vendere un sacco

Definito a metà tra Foreign Policy e Vanity Fair, nato come una versione trendy dell'Economist, Monocle ha conquistato il pubblico nonostante i prezzi proibitivi

di Chiara Lino

Nel ’94 Tyler Brûlé, giovane giornalista della BBC, era impegnato come reporter in Afghanistan. Un giorno il fuoristrada su cui si trovava fu attaccato: colpito gravemente alle braccia, tanto da perdere l’uso della mano sinistra, fu costretto a trascorrere in ospedale un lungo periodo di degenza. Complice la morfina, il riposo prolungato e la terribile esperienza, Tyler si trovò a riconsiderare le sue priorità. Gli amici. Vivere in una casa meravigliosa. Viaggiare.

Quindici anni più tardi un assistente personale apre le porte al suo passaggio, le vendite dell’ultimo magazine da lui creato – Monocle – continuano a crescere nonostante la crisi dell’editoria cartacea, ha un passaporto tappezzato di timbri (soprattutto di paesi asiatici), ha aggiunto ben due accenti ad un cognome che ne era privo e possiamo presumere che viva in una casa meravigliosa. Tyler Brûlé, al suo quarantaduesimo anno di età, è indubbiamente un uomo di successo. Ne parla Tim Adams su Business Week, con toni a metà tra l’ironico e il sinceramente ammirato.

L’ultimo numero di Monocle è un mattone che mette alla prova qualsiasi nozione su cosa funziona nei media in questi ultimi anni, partendo dal’assunto secondo cui non è proprio il periodo adatto per far partire un periodico cartaceo. A tre anni compiuti, Monocle può vantare una circolazione globale di 150.000 copie, una crescita annua del 35% in un periodo in cui le vendite dei periodici dovrebbero andare nell’altra direzione, e 16.000 abbonati. Se, ad un primo sguardo, questi numeri non appaiono notevoli, è necessario considerare che ogni abbonato paga 150 dollari per dieci numeri, con un sovrapprezzo del 50% rispetto a chi lo acquista in edicola.

Brûlé, stanco di sentirsi ripetere che fondare una nuova rivista cartacea era, dati alla mano, una follia, ha fatto di testa sua. Si è inventato Wallpaper individuando un mercato di post-jet-set e fighetteria internazionale che ne facesse il proprio status symbol (o di wannabe, come dicono gli americani: aspiranti fighetti internazionali che si potevano permettere al massimo la rivista). Poi quell’idea ha esaurito la sua spinta propulsiva, e ha creato Monocle spiegando agli stessi lettori che era venuto il momento per occuparsi anche di attualità internazionale: ma solo su pagine molto eleganti. Ora Monocle non vanta solo dati di vendita notevoli, ma anche un discreto numero di definizioni. Nato per essere un “trendy Economist”, definito “a metà tra Foreign Policy e Vanity Fair” da Harry Forestell, reporter di CBS News, sembra voler seguire le tracce di Wallpaper, precedente creatura di Brûlé, che secondo il New York Times ha dato il nome a una generazione.

In cambio dei loro soldi, i lettori ottengono un concentrato globale di report su nuove correnti di pensiero e stili di vita provenienti dai luoghi più impensati. Possono avere una visione dall’interno su argomenti che spaziano da “gli eroi dell’ospitalità a Basilea” a “i magnate del cinema messicano”. Scoprono che “i medici tedeschi sono i più attraenti del mondo”. Hanno accesso ad analisi sull’effettiva utilità delle borse da viaggio, sui vantaggi delle pantofole di pelle di vitello e sulla carta da lettere monogrammata, più di quanto sia probabilmente salutare.

Per quanto i finanziatori provengano da diverse parti del mondo e l’Asia venga considerata “più editoriale per il nostro pubblico”, l’anima di Monocle resta europea e punta a conquistare un pubblico vario quanto gli argomenti che tratta: ognuno di questi elementi contribuisce in modo imprescindibile a formare il DNA della rivista.

“Ognuno di loro (gli investitori) ha idee molto diverse sul consumatore globale a cui ci rivolgiamo – dice Brûlé. – Vogliamo allo stesso modo lo studente diciannovenne di design o scienze politiche e l’investitore bancario o il diplomatico.”

Tyler Brûlé ha in sé la curiosità estetica, condita con un pizzico di ironia, e la testardaggine necessaria per creare un’impresa di successo: segnalato puntualmente nella Pink List di uomini gay e donne più influenti del Regno Unito, redatta ogni anno dall’Independent, a 33 anni aveva già ottenuto un premio alla carriera dalla British Society of Magazine Editors. Vede se stesso come un venditore di idee e punta a diventare colui che annullerà le differenze tra giornalismo e pubblicità: finora ha fatto grandi progressi in questo senso.