Il Partito della Nazione? Purtroppo Renzi non lo fa

Approvato l’Italicum, col suo premio di lista senza possibilità di apparentamenti, è già chiaro quale sarà il tormentone della prossima stagione renziana e antirenziana: quando, come e con chi il Partito democratico si trasformerà nell’ormai mitologico Partito della Nazione, dando corpo secondo i critici più accesi all’intento del premier di snaturare il Pd trasformandolo in un catch-all-party, un partito prendi-tutto disposto a imbarcare elettori e ceto politico d’ogni provenienza, col che si instaurerebbe in Italia una sorta di monopartitismo imperfetto.

Dato atto ad Alfredo Reichlin di aver posto in più occasioni e in modo preciso il tema, è evidente come la versione corrente del PdN come partitone unico divoratore di spazi e di pluralismo sia una notevole distorsione dell’idea iniziale. Direi di più: una improbabile caricatura.

Senza andare lontani nel tempo, abbiamo validi esempi da usare come confronto, perché ci sono stati casi di catch-all-party che per un periodo più o meno lungo hanno interpretato il ruolo di “partito della Nazione” in democrazie che ciò nonostante erano saldamente bipolari, anzi bipartitiche.
Altro che la «melassa neo-democristiana» di cui si scrive. Altro che il tradimento delle origini lamentato dalle opposizioni interne a Renzi.
I repubblicani di Reagan, i democratici di Clinton, i Tories della Thatcher e i nuovi laburisti di Blair – per citare solo i casi più noti – sono stati tutt’altro: partiti sulla cui identità non era lecito nutrire dubbi, capaci però di esercitare un’egemonia non solo elettorale ma anche culturale e in definitiva ideologica sulle rispettive società perché veniva loro riconosciuto di interpretare un interesse “nazionale” appunto, oltre la partigianeria. Realizzando così quello che i politologi anglosassoni chiamano un realignment del sistema e costringendo anche gli avversari – rimasti assolutamente tali – a modificarsi e a incorporare parti del pensiero e della linea vincenti.

Di fronte a questa descrizione (molto vicina, credo, all’interpretazione di Reichlin), dovrebbe essere evidente che, se in Italia non c’è rischio di melassa neo-democristiana, è purtroppo anche vero che non si sta costruendo alcun partito della Nazione, non è in corso alcun realignment e non si sta affermando alcuna egemonia politico-culturale. Al di là del concetto (sacrosanto) che l’Italia è bella e «ce la farà», non si sta imponendo una particolare idea-forza sul tipo di società e/o di Stato che dovremmo diventare.
Più semplicemente, una leadership forte approfitta dello sgretolamento dei concorrenti e compie tentativi di sfondamento di equilibri di potere consolidati fino alla pietrificazione.
Per quanto un assalto all’establishment sia sicuramente salutare e necessario al Paese, la leadership renziana rimane distante dallo sforzo ideativo e dalla capacità di penetrazione nella coscienza collettiva (e nella storia) delle esperienze citate. Le epoche di Reagan, Clinton e Blair, che sono state raccontate come post-ideologiche, sembrano quasi dottrinarie in confronto alla totale proiezione sul presente dell’avventura di Renzi, il quale infatti non vuole dotarsi di alcun apparato ideale che sia di supporto (o magari, nei suoi timori, di freno) alla sua straordinaria capacità di interpretare e cogliere gli umori popolari e il momento politico.

Non si realizza così neanche l’effetto collaterale positivo dell’affermarsi di un vero PdN, ovvero l’obbligatorio rimodellarsi degli avversari su una sfida a chi risponde meglio agli interessi collettivi, senza fughe estremiste, che è esattamente ciò che servirebbe al centrodestra italiano per uscire dalla propria attuale crisi e così rendere un buon servizio alla democrazia.
Esiste anche un sondaggio, di un istituto tra quelli compulsati da Renzi, che indirettamente conferma l’inverosimiglianza del tanto temuto progetto Partito della Nazione.
Non riguarda le intenzioni di voto (che continuano a essere buone per il Pd, anche in proiezione regionale), bensì la potenzialità di Renzi di attrarre consensi trasversali. Che era forte, all’apparire sulla scena dell’attuale premier, ed è adesso molto più limitata. Quasi inesistente. In altre parole: per gli italiani da qualche mese Renzi è tornato a essere “semplicemente” un leader di sinistra, ancorché più apprezzato di qualsiasi suo predecessore, oltre che coraggioso nello sfidare conformismi e conservatorismi della propria base.

I sondaggi elettorali confermano il dato delle rilevazioni cosiddette “qualitative”: a parte alcune sparute élites intellettuali, non si vedono frange di elettorato di centrodestra in transito verso il Pd, il che incoraggerà le sparse truppe ex berlusconiane a rimettersi insieme solo per obbligo di Italicum, senza particolari revisioni, con l’obiettivo minimo di una rivincita provvisoria.
Sarà molto difficile che questa rivincita venga e Renzi, anche grazie alla nuova legge elettorale, ha probabilmente davanti a sé un periodo lungo di predominio sulla scena politica e di governo. Più ancora delle elezioni regionali, il referendum confermativo sulla riforma costituzionale (l’anno prossimo) gli darà la spinta decisiva verso il lavacro delle elezioni politiche. Nel frattempo, il Pd attrae e attrarrà pezzi di ceto politico eterogeneo, come già capita in maniera incontrollata e molto discutibile in periferia.
Ma tutti questi eventuali successi non daranno automaticamente a Matteo Renzi lo status di eroe eponimo di una duratura stagione di egemonia e di cambiamento. E per ora, dovendo proprio farlo, il premier andrebbe criticato per il motivo opposto a quello di moda: non perché stia edificando il partito della Nazione, ma perché non lo sta facendo abbastanza.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.