Rassegnarsi a Renzi

Berlusconi e Alfano hanno clamorosamente sbagliato i calcoli, giorni fa, quando hanno pensato – in sintonia non casuale con i loro arcinemici del Fatto quotidiano – che davvero Renzi avrebbe finito per eleggere il capo dello stato insieme a loro, nel nome del patto del Nazareno, rassegnandosi ad approfondire la rottura interna al Pd e alla sinistra. Eppure gli era stato detto in ogni modo, che Renzi in questa occasione avrebbe anteposto l’unità del proprio partito a ogni altra esigenza.
Ora, nella disfatta tattica di questo venerdì di vigilia, i capi del centrodestra pagano l’errore iniziale e quello successivo, ovvero la reazione istintiva e vagamente isterica alla scoperta delle reali intenzioni di Renzi.

Analogamente, dalla parte opposta del quadro politico, Nichi Vendola e il dissenso democratico non dovrebbero adesso compiere l’errore speculare. Magari trascinati dall’entusiasmo dell’essere parte integrante e decisiva dell’elezione di Sergio Mattarella. Già, perché il blitz renziano di questi quattro giorni serve al premier a sparecchiare il tavolo dai suoi ultimi avversari e alleati riottosi e a compiere un ulteriore impressionante salto di status politico (oltre, per carità, a nominare un ottimo capo dello stato), ma non mira affatto a cambiare la maggioranza che ha governato il paese nell’ultimo anno, e neanche a sbaraccare quell’altra maggioranza (quella appunto del patto del Nazareno) che ha scritto la riforma della legge elettorale e la riforma del bicameralismo.
Lo schema di gioco di Renzi rimane lo stesso, anzi confermato e incoraggiato dall’esito della vicenda Quirinale.

Al centro di tutto c’è lui (e nessuna stupida diarchia con Berlusconi), dominus politico più di prima anche perché il presidente Mattarella non avrà né vorrà alcuno dei compiti di supplenza che sono toccati per oltre tre anni a Napolitano. La riforma elettorale è praticamente fatta (manca l’ultimo agevole passaggio alla camera) e di preferenze non si parlerà più. La riforma del bicameralismo avrà più passaggi, ma è chiaro che Berlusconi non potrà ostacolarla più di tanto. Quanto alla maggioranza di governo e al governo stesso, lo scontro con Alfano – dall’esito imbarazzante per quest’ultimo – ha portato in emersione una situazione finora latente: buona parte del Ncd e dell’area centrista è ormai pienamente organica al renzismo (non al Pd) e riconosce una sola leadership. Per citarne solo una tra molti altri, Beatrice Lorenzin ha sofferto negli ultimi giorni per il metodo ruvido e come al solito solitario del suo presidente del consiglio, ma alla stretta finale non ha dubbi su come schierarsi pro o contro Mattarella.

Un simile quadro politico non può che tradursi nei prossimi mesi in una stabilizzazione, ovvero tutto l’opposto del terremoto pronosticato da alcuni che del patto del Nazareno erano fan troppo accaniti, o avversari troppo eccitati.
Se Renzi è più forte di prima (lo è) e se a palazzo Chigi si trova benissimo (si trova benissimo), gli italiani devono rassegnarsi a tenerselo capo del governo ancora per un bel po’, finché lui riterrà utile rimanerci. E con Renzi rimarranno le sue politiche e le sue riforme, le stesse che hanno indignato l’ala sinistra per mesi, al massimo bilanciate dalle promesse iniziative di governo sui diritti civili.
Ed è proprio questa evidenza – la prospettiva di un renzismo all’ennesima potenza – l’unico retropensiero che ancora può turbare la determinazione dei suoi critici al momento di dare l’ultimo decisivo voto sul Quirinale. Ma è un’ombra molto, molto fugace.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.