Il messaggio di Napolitano

Viene di nuovo da un uomo di novant’anni, che a sua volta riprende una personalità come Paolo Rossi, filosofo scomparso nel 2012 a 89 anni, la sintesi più efficace, moderna, penetrante della morsa che trattiene l’Italia dal liberare le proprie energie migliori. Noi siamo ancora un paese, ha detto Giorgio Napolitano all’Accademia dei Lincei, preso in ostaggio da un lato «dai senza speranze» (e da ciò con cui costoro si fanno forti: «la letteratura apocalittica, le previsioni catastrofiche dubbie o fallite, il rifiuto dell’incertezza») e dall’altro dai portatori «di smisurate speranze», inclini a vedere rivoluzioni imminenti dietro ogni angolo.

Fate voi, attribuite a uno o all’altro dei protagonisti della vita politica nazionale il ritratto dei cinici disperati o degli altrettanto cinici illusionisti. Spesso scoprirete che le due figure coincidono, trasfigurandosi spesso i primi nei secondi, salvo poi riproporsi nella versione originaria. In ogni caso non potrete negare la profonda verità della descrizione proposta dal presidente della repubblica. Un uomo che per tutta la sua vita, coincidente con la sua esperienza politica, è andato cercando (ed è stato anche duramente attaccato per questo) una sorta di terza via per descrivere la quale torna oggi a parafrasare il lontano presidente della Corte costituzionale: la strada maestra delle «ragionevoli speranze», da coltivare «con perseveranza» e con «ogni sobrietà, giorno per giorno». Mettete insieme i disperati e gli incantatori di professione, e troverete tutti i nomi del partito trasversale che in questi anni ha contrastato il tentativo di Napolitano di portare l’Italia su un terreno di maggiore razionalità nel dibattito pubblico, di rispetto per le istituzioni e per gli avversari politici, di efficacia e concretezza nell’opera di riforme quasi sempre declamate e quasi mai condotte fino ad applicazione e verifica.

Non so se accadrà, ma sarebbe bello se su questo terreno, su questi paradigmi, ci si confrontasse nel passaggio stretto della scelta del prossimo capo dello stato. Non perché il successore di Napolitano debba essere un clone di Napolitano medesimo, cosa peraltro improbabile. Ma perché al ruolo di rappresentante della Nazione dovrebbe corrispondere l’idea che si ha e che si vuole proporre della Nazione stessa, sottraendosi per quanto possibile alle alchimie, alle convenienze e alle contingenze del momento politico, peraltro assai mutevole.

Una gran parte di questa responsabilità ricadrà presto sulle spalle del Pd e di Matteo Renzi, il quale ha avuto con Napolitano un rapporto in crescendo, certificato dalle citazioni presidenziali sempre più frequenti nei suoi discorsi. Solo un omaggio doveroso? Lo capiremo presto. Renzi dovrebbe sfuggire alla tentazione di far corrispondere la più alta carica dello Stato alla propria personale visione dell’Italia. Che è forte, dinamica, tutta proiettata sul futuro, ma non può non appoggiarsi sulla stabilità e sulla affidabilità date dalla memoria. Non c’è bisogno di riandare a Gramsci, ai partiti di massa e alle radici della Repubblica, come ovviamente Napolitano può permettersi di fare. Basta che il futuro capo dello stato, ancorché giovane, sia in grado di ricordare e decifrare correttamente la parabola dell’Italia degli ultimi vent’anni. E cioè che sappia riconoscere e smontare il meccanismo che ha fatto girare insieme da una parte la corruzione e la degenerazione della vita pubblica, e dall’altra «la patologia dell’antipolitica» come la chiama Napolitano. Due estremi che si tengono insieme e si alimentano reciprocamente, come appunto i due fronti falsamente contrapposti dei disperati e degli illusionisti.

Ci saranno personalità dotate di autonomia di pensiero, quindi in grado di sottrarsi alla stretta di due fenomeni parimenti facili e popolari? Non ci sono riusciti in molti, in Italia in questi anni.
Come perfidamente ricorda il capo dello stato (si comincia a sentire nei suoi interventi un rumorino di sassolini nelle scarpe che si apprestano a uscire, uno a uno), al catastrofismo antipolitico hanno ceduto perfino «giornali tradizionalmente paludati» (fischiano le orecchie a Milano?), «opinion makers lanciatisi senza scrupoli a cavalcare l’onda, per impetuosa e fangosa che si stesse facendo» e perfino, «per demagogia e opportunismo», «soggetti politici pur provenienti dalle tradizioni del primo cinquantennio della vita repubblicana».

Ecco, mancano forse poche settimane alla riconquista della piena libertà personale da parte di Giorgio Napolitano, e già diventa esplicita la sua dura critica (ben nota ai frequentatori del Quirinale) nei confronti della deriva culturale e politica subìta dalla sinistra post-comunista. Alla quale Napolitano non ha mai perdonato l’adesione (appunto, «opportunistica») alle mode degli anni del giustizialismo rampante. È una traccia di lavoro, per Renzi. Un profilo sul quale il segretario-premier può lavorare, perché può riconoscervi anche tratti della sua critica alla sinistra che c’era prima di lui, e può ritrovarvi – paradossalmente, venendo da un novantenne, ma mica tanto – un incoraggiamento alla discontinuità. Il compito per il Pd è di trovare, tra uomini e donne di una o due generazioni successive a quella del capo dello stato, una figura che sappia conquistare consensi e forza su questa idea dell’Italia, che è contemporaneamente del tutto nuova rispetto alle patologie del presente e del recente passato, eppure consapevole della grandezza della democrazia che siamo stati.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.