La crisi dei partiti in Parlamento

Dovessimo ricavare certezze dalla attuale situazione parlamentare, dovremmo dedurne che per Matteo Renzi non c’è speranza di farcela. La corsa a ostacoli dei prossimi due mesi propone difficoltà crescenti, perfino più ostiche di quella che già sembrava una montagna da scalare – il Jobs Act – e che il governo sta superando con buona agilità parlamentare ma anche un alto dispendio di energie politiche e un sensibile prezzo elettorale.

Tra dicembre e gennaio, intrecciati con la legge di stabilità, avremo, come spiega bene Stefano Ceccanti su Europa (il giornale che dirigo), un voto della camera sulla riforma del bicameralismo, un voto del senato sulla riforma elettorale e infine la più che probabile convocazione del parlamento congiunto come seggio elettorale per il Quirinale. La difficoltà consiste nell’incredibile sostanziale auto-scioglimento parallelo del secondo e del terzo gruppo parlamentare – Cinquestelle e Forza Italia – e della aperta secessione all’interno dei gruppi Pd, consumatasi sul Jobs Act ma preannunciata anche sulle prossime scadenze.

Non si tratta di vicende eguali, né per natura né per dimensione del problema.
La spaccatura di Forza Italia è verticale, molto ampia, per certi aspetti definitiva. L’implosione del M5S è caotica, isterica, irrazionale, impossibile da quantificare ma anch’essa appare irreversibile, visto che Grillo e Casaleggio non sembrano né capaci né intenzionati a fermare il processo di auto-dissoluzione.
Quanto al Pd, finora le divisioni interne seguono un faglia abbastanza logica e “politica”, riguardano un numero limitato di parlamentari, sembrano governate o almeno governabili tant’è vero che s’è fatto in modo che non compromettessero alcuna votazione importante. Ma le turbolenze democratiche possono fare massa con l’impazzimento altrui, e determinare un quadro parlamentare nel quale nessuno possa muoversi con sicurezza. Ci sono passaggi nei quali la volontà dei leader e la forza dei loro accordi possono essere travolte da dinamiche fuori controllo. Per questo motivo l’elezione del capo dello stato è sempre stata rischiosa. In questa legislatura lo è all’ennesima potenza, la perdita di controllo essendo regola, non eccezione.

C’è però un fattore che alla fine, nove volte su dieci, prende il sopravvento e impone un suo ordine: l’istinto di autoconservazione. Quello che nell’aprile 2013 scattò solo dopo lo shock dei 101. E che stavolta potrebbe essere attivato in anticipo, prima che dal caos scaturiscano danni troppo gravi. È un calcolo che vale indistintamente per tutti: berlusconiani lealisti o fittiani, grillini ortodossi o eretici, democratici renziani, neorenziani o antirenziani. Tutti consapevoli che una crisi politica forse (forse) causerebbe la fine del primo governo Renzi, ma sicuramente spedirebbe la stragrande maggioranza di loro, per motivi diversi, fuori dal parlamento. Per sempre. Inseguiti, davanti a un paese in terribile difficoltà, dall’onta di un fallimento che il premier non avrebbe difficoltà (né torto) a scaricare sulle loro spalle.

Senza avanzare minacce troppo esplicite – almeno non finché non sia strettamente necessario – vedremo presto se e come Renzi vorrà suscitare (insieme al senso di responsabilità) l’impulso più intimo di ciascun parlamentare, quel nocciolo resistenziale che ti forma dentro già al secondo giorno della legislatura, spingendoti a sperare che essa sia la più lunga possibile.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.