Al Quirinale c’è un’idea dell’Italia

Non esiste una partita per il Quirinale adesso, perché c’è ben saldo e determinato al proprio posto il capo dello stato che ha tenuto dritta la barra dell’Italia negli ultimi otto anni. È vero però che le scelte dei partiti nella stagione politica prossima ventura possono determinare o compromettere le condizioni per un’elezione del successore di Napolitano meno traumatica di quella del 2013.

Intorno alla riforma elettorale c’è ora soprattutto tanto tatticismo, l’importante è che l’opportunità del momento non spinga verso un sistema peggiore del già difettoso Italicum; e che le manovre di oggi non avvelenino un clima che dovrà essere pulito e respirabile al momento di votare per il Colle, perché gli italiani non sopporterebbero l’ennesima rappresentazione di congiure e tradimenti.

Quando Matteo Renzi e l’intero gruppo dirigente del Pd recitano il rosario dei complimenti a Napolitano sono sicuramente sinceri. Torna in mente il tono accorato del premier durante l’ultimo discorso della Leopolda, all’immediata vigilia della deposizione del capo dello stato nel processo di Palermo: tutta l’energia renziana spesa in omaggio alle virtù del presidente della repubblica. Questa posizione ha una conseguenza inevitabile. Siamo molto distanti dal momento in cui il Pd dovrà dire la sua sui candidati, ed è giusto aspettarsi da Renzi proposte non convenzionali. Con un punto fermo, però: non si può rovesciare il legato di Giorgio Napolitano.

Da quando fu eletto nel 2006, Napolitano è stato davvero “il presidente di tutti” (così titolò in prima pagina Europa, il giornale che dirigo). Non tutti lo hanno riconosciuto come tale (e fin qui, ci sta) ma alcuni lo hanno individuato addirittura come nemico numero uno e hanno condotto contro di lui una battaglia in certi momenti invereconda, con armi legittime e non legittime. È successo per un motivo semplice: perché Napolitano s’è caricato della missione di far uscire il paese dal ventennio di guerra civile a bassa intensità, e contemporaneamente ha imbullonato l’Italia alla sua appartenenza e ai suoi doveri verso l’Europa. E invece qui da noi c’è gente che sulla guerra civile ci campa e prospera; e c’è gente, in gran parte gli stessi, che specula sulle difficoltà della nostra collocazione europea fino a ipotizzare demenziali uscite unilaterali dalla moneta unica.

Allora il punto dev’essere chiaro, e a palazzo Chigi e al Nazareno lo è abbastanza: chi verrà dopo Napolitano sarà forse molto diverso da lui, ma certo non sarà contro di lui.
È dunque assai inverosimile che una figura del genere possa scaturire dalla convergenza con partiti che l’attuale capo dello stato non si sono limitati a criticarlo, ma hanno tentato ripetutamente di delegittimarlo fino a ipotizzarne l‘impeachment.
Certo, in questo novero rientra anche un pezzo di Forza Italia. Non sarà un caso però se da un po’ di tempo non si ascoltano più, da quelle parti, le follie che venivano sparse al vento un anno fa di questi tempi, mentre Berlusconi veniva espulso dal parlamento e si pretendeva che il capo dello stato dovesse – chissà come – impedire un esito che era ormai inevitabile.
Qualsiasi manovra il Pd decida di tentare nei prossimi giorni per consegnare agli elettori (e al Quirinale) almeno un primo voto sulla legge elettorale, la maggioranza di partenza nella partita del Colle fra qualche mese rimarrà comunque quella vastissima che rielesse Napolitano. Se poi i confini cambiassero o si allargassero, anche meglio. Ma non a scapito della chiarezza sull’idea che abbiamo dell’Italia, dell’Europa e della democrazia.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.