Cosa c’entrano Bersani e D’Alema, ora

È una tentazione molto da Prima repubblica, e infatti chi la accarezza è nato e cresciuto in quelle scuole di partito e di pensiero. Il riferimento classico è alla doppia caduta di Ciriaco De Mita, segretario della Dc e presidente del consiglio che perse entrambi gli incarichi tra il febbraio e il luglio del 1989. Prima la segreteria e poi palazzo Chigi, per l’esattezza, in un’epoca nella quale i partiti comandavano davvero, il che fa capire meglio come mai la voglia di rivalsa contro Matteo Renzi segnalata in questi giorni dai giornali nasca sì dall’impressione di poter approfittare di eventuali difficoltà del governo, ma si appunti in prima battuta sul Pd, ovvero sul sogno di riconquista del Nazareno.

Del resto, fosse dipeso da Massimo D’Alema e dallo stesso Pier Luigi Bersani (i due tornati dalle vacanze animati da forte spirito critico), le cose sarebbero andate così fin dall’inizio: al rampante allora sindaco di Firenze, un anno fa, lo scalpo di Enrico Letta l’avrebbero concesso senza troppi problemi (dettaglio che l’allora premier comprese colpevolmente troppo tardi); ma la segreteria del Pd no, quella non l’avrebbero voluta cedere mai, proprio in omaggio all’antica dottrina del primato del partito.

Siamo di nuovo lì, a schemi politici di questo tipo. Caricati, nel caso di Bersani e D’Alema, dal comprensibile sovrappiù dell’amarezza personale, essendo stati entrambi giocati dal giovane Renzi, il secondo addirittura col perfido inganno di far balenare in pubblico e in privato una nomina europea assai desiderata e alla fine negata.

Il dubbio è se sia sufficiente tutto questo a riaprire una dinamica interna che abbiamo dato tutti per sigillata col lucchetto di primarie ed europee. Anche perché agli occhi stessi dei “non renziani” del Pd, e per tornare a illustri precedenti storici, più che le orme di Ulisse sia Bersani che D’Alema rischiano di seguire quelle di Achille, nel senso di Occhetto, cioè di muoversi troppo platealmente per sanare ferite personali, con movenze impolitiche paradossali per le persone di cui parliamo.

La gran parte di chi fino al dicembre 2013 s’è opposto a Renzi, e continua ad avere idee diverse dalle sue, non si espone così tanto, né si fa rappresentare. Tutti hanno accettato la nuova leadership, non dimenticano né relativizzano il risultato delle europee come fa D’Alema. Il sostegno al governo è fuori discussione, al massimo si gira l’Italia per riorganizzare correnti e aree politiche, oppure si ingaggiano battaglie in primarie locali dove i candidati si fregiano comunque tutti dell’epiteto di renziano.

Chiaro che gli ex leader della sinistra si sentano più liberi di esprimersi rispetto ai loro giovani successori (anche se il dissenso dalemiano sulla riforma del senato non s’era espresso in medias res). Ed è comprensibile che trovino sponda e amplificazione nell’establishment, anche in quello giornalistico che pure a suo tempo consideravano ostile: a tutti coloro che vorrebbero ridimensionare Renzi, e sono tanti nel perimetro dei vari poteri, un paio di bordate di D’Alema contro palazzo Chigi possono risultare ancora utili.

È assai improbabile che Renzi accetti lo scontro, anche se potrebbe affrontarlo con un enorme vantaggio. Anche se ogni sondaggio suggerisce che il frame “la gente con me contro l’establishment” continua a reggere, il premier deve mostrare di saper cogliere il nocciolo di verità, che c’è sempre, nelle critiche che gli vengono rivolte, da ogni parte. Nell’attività e nelle competenze di governo, come è evidente, bisogna mettere l’ordine che ora non c’è, e che rende qualsiasi incidente sempre possibile. Quanto al partito, queste remote avvisaglie di maltempo confermeranno al segretario che il presidio non solo va mantenuto, ma rafforzato.

Renzi può commettere tanti errori che sarebbero dannosi per l’Italia. L’errore più catastrofico che potrebbe commettere per se stesso e per il Pd sarebbe dar ragione a posteriori a coloro che lo accusavano di disinteresse verso il partito e verso la sua necessaria rifondazione. Ogni stormir di fronde, da ogni angolo d’Italia, reca lo stesso messaggio: nulla di quanto è stato fatto in questi mesi è irreversibile. Tutto può ancora tornare com’era prima, peggio di prima. E allora, quella storia di De Mita…

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.