La riforma del senato non è affrettata

Chi ha messo Matteo Renzi e il suo programma di riforme nel mirino avrà sicuramente occasione di sparare qualche colpo a palazzo Madama.
Nonostante le ultime fibrillazioni tra Pd e Forza Italia è difficile che evapori l’ampia maggioranza che s’era aggregata intorno al patto del Nazareno, però incidenti di percorso sono possibili. Per fortuna è invece impensabile che questi tentativi possano essere in alcun modo favoriti dal presidente del senato: per quanto si sia fatto tirare dentro una polemica per lui impropria sul merito delle riforme e sui rapporti di forza parlamentari, Grasso ha troppo a cuore il senso del proprio ruolo per esporsi a ulteriori critiche. Oltre tutto sapendo che il suo lavoro sarà scrutinato adesso con particolare attenzione.

Nell’ampia gamma di modifiche contenute nel disegno di legge di riforma costituzionale del governo c’è spazio per correzioni e miglioramenti. Perfino dalla scoppiettante conferenza stampa di Renzi, Boschi e Delrio s’è capito che la riforma del senato è un cantiere aperto, del quale (per il premier) sono fuori discussione solo le fondamenta: senatori non eletti direttamente e non retribuiti, nessun potere di voto su fiducia e bilancio.
Sarà interessante seguire l’iter di una riforma sulla cui realizzabilità nessuno avrebbe mai scommesso un euro. A caldo, la sera del patto del Nazareno, anche noi avevamo concentrato i commenti sull’Italicum, avvertendo che la pur difficile riforma elettorale sarebbe stata comunque molto più agevole da portare a casa che non l’attacco allo status quo del bicameralismo e dei poteri delle Regioni.

Di tutti gli argomenti critici possibili, gli avversari di Renzi fuori e soprattutto dentro il Pd dovranno evitarne solo uno, pena plateale figuraccia e smentite troppo facili: che la fine del bicameralismo sia una una decisione «affrettata» e che sia necessario «prendere altro tempo».
È una barriera che è stata travolta subito, ieri, senza entrare nel merito del progetto, da Napolitano: della necessità di chiudere con la duplicazone di funzioni e con l’elefantiasi parlamentare il capo dello stato s’è espresso «da tempo». «Da tempo» vuol dire che il sistema politico ha riconosciuta questa “urgenza” addirittura trent’anni fa, senza mai riuscire a combinare nulla per un motivo semplice che i cittadini a un certo punto hanno capito benissimo: non per le alte ragioni democratiche accampate oggi dai conservatori dell’esistente, ma perché la riforma comportava un dimagrimento del sistema politico medesimo.

Che da questo atteggiamento, da questi ritardi, da questo sostanziale ostruzionismo, sia poi discesa l’impotenza parlamentare, con essa lo scadimento della credibilità dell’istituzione e infine la vera degenerazione della qualità democratica del paese, questo è un concetto che stranamente sfugge ad abituali fustigatori dei vizi nazionali come Zagrebelsky e Rodotà, per non dire di Beppe Grillo.
La verità è che ci sono tante rendite di posizione che vengono messe in pericolo in questa stagione. Comprese quelle degli eterni critici di un sistema che anche a loro fa comodo rimanga eternamente immodificabile.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.