Non un gran discorso

Pare che lasciando Bari, sabato, Matteo Renzi abbia commentato il proprio discorso di lancio della campagna congressuale dicendo che su indulto e amnistia non s’era spiegato bene, e che molti temi erano rimasti fuori «perché non si può dire tutto in una volta».
Già questo velo di autocritica aveva dato sollievo: voleva dire che il discorso “vero”, quello atteso da tutti, Renzi l’aveva solo rinviato, non cancellato. Ieri poi, parlando a Verona, è stato conseguente, e molto più efficace su alcuni punti utili a decifrare la sua idea di Pd.

Ma rimaniamo alla Fiera del Levante. Perché perfino un intervento improvvisato, sfilacciato e monco come quello, nel rivelare uno dei lati deboli del candidato ha però confermato quale sia la sua forza attuale, e ha illuminato il nucleo della sua cultura politica. Perché sì, anche i più astiosi detrattori prima o poi dovranno prendere atto che il sindaco di Firenze è portatore di una cultura politica e non di un pacchetto ben confezionato di banalità.
La forza di Renzi è evidente nelle reazioni dopo Bari. È lui che occupa il centro della scena. Non del Pd o del centrosinistra, ma di tutto l’arco politico. Quando basta una mezza frase per scatenare i commentatori del paese intorno a nuove ipotesi di crisi di governo, o di crisi istituzionali con il Quirinale, vuol dire che s’è definitivamente individuato il player della politica nazionale, nel bene o nel male.
Sarà sempre più così fino all’8 dicembre e oltre. Gli esiti del congresso non vanno dati per scontati, ma sul piano dell’impatto politico-mediatico la sproporzione tra il front runner e gli sfidanti è vistosa.

Il punto della cultura politica è tutto nella storia delle etichette di Coca Cola e Nutella.
Fin qui la questione degli individui citati per nome e per cognome poteva sembrare solo un approccio anglosassone alla tecnica del discorso pubblico. Cioè di un espediente retorico che, tolto Walter Veltroni che tende anzi ad abusarne, è ostico ai dirigenti della sinistra italiana. I quali parlano sempre per concetti astratti e generali riferendosi al lavoro, ai giovani, alle donne, alla disoccupazione, all’immigrazione, alla giustizia, laddove qualsiasi Miliband (per non dire dei suoi maestri) si obbliga a citare un operaio preciso, quel giovane, una storia di donna con nome e cognome, un caso di mala giustizia. Vicende sempre fortemente esemplari e prossime all’esperienza del cittadino medio.
Dietro a questa abilità comunicativa c’è un pensiero. Diverso da quello tradizionale della sinistra. Affine a un pezzo importante della cultura cattolica, il che non lo farebbe sembrare modernissimo se non fosse che invece per questa via si incrocia proprio la contemporaneità più spinta e problematica. Perché, insomma, il trionfo dell’individualismo, soprattutto nelle giovani e giovanissime generazioni, o lo si affronta per quello che è oppure lo si esorcizza vanamente. E tutte le degenerazioni consumiste – di cui le etichette della Nutella sono simpatiche e inoffensive derivazioni – possono capovolgersi in un di più di attenzione dei giovani alle cose pubbliche e collettive solo se si riconosce e si premia la loro potente voglia di contare come singole persone e non come aggregati indistinti.

Qui c’è un cruciale punto di svolta possibile. Si può scivolare indietro nell’edonismo reaganiano (come denunciano gli antirenziani) o ancora più indietro nell’individuo che s’annulla nella massa (come praticano i Cinquestelle). Oppure si può tentare di dare una soluzione democratica, in ogni senso, al più grave dei gravi fallimenti della politica degli ultimi decenni. Renzi pare aver chiaro il tema e ha le parole per declinarlo. È da vedere se lui e gli altri sapranno anche rifondare il Pd su questa esigenza.
Perché – qui era la lacuna grossa di Bari – anche in presenza di un leader l’affermazione dei diritti degli individui senza una organizzazione è impensabile; e torna a essere retorica se – oltre alle donne, ai lavoratori, ai migranti – non si nominano per nome e cognome anche i poteri che vanno sconfitti.
Non solo la politica o la burocrazia, di cui è facile dire ogni male. Ma anche e soprattutto gli imprenditori sfruttatori di lavoro privato e di capitale pubblico. I manager inetti. Le banche egoiste e strozzine. I sindacati corporativizzati. Le professioni blindate. Le false èlite accademiche, giudiziarie, intellettuali. Il giornalismo pigro e corrivo. I pezzi e pezzetti di società che si autonomizzano e si fanno nemici dello stato.

Ieri, a Verona, Renzi ha se non altro cominciato a fare l’elenco. Non ancora i nomi.
Se e quando li farà, avremo ben altro scandalo che non il dissenso con il capo dello stato su una vicenda importante ma circoscritta per definizione al presente della cronaca italiana, anzi all’emergenza. Lo scandalo sarà su un futuro della Nazione, magari a quel punto davvero un po’ rivoluzionario, al quale il Pd potrà decidere di voler legare il proprio destino.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.