Chi salverà il Pd in crisi nervosa?

La crisi nervosa che sta scuotendo il Pd dalla base al vertice, in un momento nel quale non ce ne sarebbe alcun motivo oggettivo visto che tutto il marasma e tutto il vero dramma sono nel campo di Berlusconi, è una grandissima lezione. Soprattutto per Matteo Renzi.
Nessun presidente del consiglio, neppure un giovane innovatore eventualmente plebiscitato da un’ampia maggioranza di italiani, potrebbe mai considerarsi stabile e sicuro del proprio lavoro, se la coalizione che lo sostenesse in parlamento fosse imperniata su un partito come l’attuale Pd.
E questo nel caso che Renzi pensasse ancora di fare il salto doppio, diventando premier senza passare dal Nazareno. Perché se invece – come nonostante tutto continua a essere più probabile – prima di arrivare a palazzo Chigi il sindaco di Firenze fosse costretto a sedersi anche solo per sei mesi alla scrivania che è stata di Veltroni, Franceschini, Bersani ed è ora di Epifani, in questo caso la lezione per lui dovrebbe suonare ancora più minacciosa.
A Epifani è stato consegnato un partito destrutturato. Dove non vige alcun principio di autorità né di autorevolezza. Dove non è riconosciuta alcuna leadership né formale né sostanziale. Dove nessuno sente l’obbligo di rispondere per le scelte che si compiono, ritenendo più agevole dissociarsene prima, durante o dopo, magari dopo averle condivise per qualche ora.

Negli ultimi giorni mi hanno colpito due colloqui casuali.
Ieri, dibattendo alla radio, una deputata d’esperienza come Sandra Zampa (tra coloro che non hanno votato la sospensione d’aula di mercoledì) chiedeva che nel Pd «si desse ascolto al dissenso». Mi è suonata come una curiosa frase d’altri tempi. Perché a me pare che ormai il Pd sia prevalentemente dissenso, e se è difficile da ascoltare è perché travalica largamente il consenso.

In precedenza, una deputata di prima nomina mi aveva confessato il disorientamento delle reclute (cioè della maggioranza dei neoeletti) proiettate in parlamento senza trovarvi alcuna figura solida di riferimento. I capi rottamati sono rottamati, i pochi big rimasti non presidiano le aule, sono screditati o si sono screditati, e quanto ai nuovi o non sono ancora arrivati oppure si dimostrano troppo leggeri per gli attuali tempi duri.
Non c’è da stupirsi che si stiano ripetendo le scene del terribile aprile del Quirinale, con i circoli in rivolta e i parlamentari affannosamente alla rincorsa. Quelli che si indignano, protestano e non capiscono. Questi che si spaventano, si incolpano a vicenda, non sanno spiegarsi.

Fare un governo di larghe intese, con Berlusconi poi, richiede larghe spalle, senso e coscienza di sé, capacità di convinzione. Ma innanzi tutto bisogna essere convinti in prima persona di aver compiuto la scelta migliore per il paese. Transitoria, ma importante per le poche cruciali riforme che vanno portate a casa.
Se il Pd, pur con tutte le migliori promesse davanti, è tuttavia così povero di certezze e così fragile di nervi, le responsabilità non sono ovviamente indistinte.
Il fallimento dell’illusione partitista di Bersani è plateale: tre anni di lavoro per ripristinare le regole minime di una bocciofila hanno prodotto un’anarchia mai vista prima, altro che partito liquido. E anche la scelta che pareva la migliore compiuta dall’ex segretario – il rinnovamento generazionale, sotto l’incalzare di Renzi – si rivela operazione affrettata, non adeguata all’asprezza dei tempi, con bravi giovani mandati allo sbaraglio senza copertura in delicati passaggi politici e istituzionali.
Renzi può dirsi fortunato, se gli effetti del fallimento degli anziani e della furia novista vengono pagati da altri e non da lui. Ma è una fortuna che dura poco: in un ruolo o nell’altro, prima o poi «tutto questo sarà suo». E non si vede come primarie e congresso possano favorire la pacificazione interna e il ripristino di un principio di unità: Renzi pensa di poter «cambiare l’Italia» guidando una federazione di correnti e di spifferi, molti dei quali desiderosi di fargli venire il raffreddore?

Quel che ci vorrebbe, quel che ha salvato altri grandi partiti nei momenti di trapasso, sarebbe un patto generazionale trasversale fra quarantenni e cinquantenni di diversa linea politica, vogliosi di prendersi soddisfazioni alla testa di un partito che è comunque il più forte d’Italia, e per questo motivo duri e coesi anche nel difendere e nell’argomentare scelte difficili. A difesa dell’attuale quadro politico finché è sostenibile, pronti a rovesciarlo in qualcosa di più solido (non di più avventurista) quando diventasse necessario.

Il vettore del loro successo potrebbe essere oggi Letta, domattina Renzi, presto qualcun altro se saprà farsi spazio: leader, ma anche strumenti di un gruppo dirigente tornato tale e in quanto tale indispensabile a qualsiasi leader che desideri durare un po’ più dei segretari del Pd bruciati fino ad adesso.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.