Renzi fa bene a ribellarsi alla melina

Giocano col fuoco, al Nazareno. Solo che poi ci scottiamo tutti.
Il furibondo articolo di Giorgio Tonini che pubblichiamo su Europa e la nervosa newsletter di Matteo Renzi segnalano il raggiungimento del punto critico dentro al Pd.

Per una volta Renzi non ha un po’ ragione e un po’ torto.
Ha solo ragione.
Lasciamo perdere il fatto, evidente, che la sfuriata sia maturata a freddo dopo i segnali negativi arrivati dal mondo che per il sindaco di Firenze (ma non solo per lui) conta di più: i media mainstream. Ha avuto un peso, l’editoriale del Corriere della Sera nel quale si invitava Renzi a lasciar perdere la battaglia per la conquista di un partito irriformabile. Una volta digerita la faticosa prospettiva di dover passare dalla rifondazione del Pd per poter aspirare a cambiare l’Italia, Renzi soffre se gli si dice che si è ormai invischiato nei bizantinismi di Roma.

Non è difficile capire che cosa stia accadendo intorno al tema dei tempi e delle regole del congresso.
Divisi fra loro e incapaci di esprimere una candidatura forte e credibile per la leadership nel modo in cui essa venne intesa sia per Veltroni che per Franceschini e Bersani (cioè guida del partito e front-runner per il governo del paese), i pezzi sparsi del disciolto patto di sindacato bersaniano cercano di riproporre per il Pd un modello simile alla Dc più antica: per quanto si trattasse di un vero partito-stato, l’ossessione di impedire l’emergere di personalità troppo forti imponeva il bilanciamento fra chi andava a occupare il governo e chi rimaneva a gestire il partito.
Ex popolari (testimoni diretti dell’epoca) ed ex diessini (osservatori con invidia) pensano di ripristinare quel modello per limitare i danni dell’inevitabilità di Renzi, che continuano a ritenere alieno perché nel tempo (anche recente) hanno avuto prova della sua fondamentale irriducibilità alle alleanze (che può essere un limite, ma fin qui è stata la sua forza).

Accettiamo che Renzi ci faccia vincere le elezioni, ma se riusciamo a non fargli metter mano al partito possiamo sperare che prima o poi il fenomeno si depotenzi.
Il ricompattamento della sinistra, la necessità di tutelare il governo Letta, la distinzione fra le cariche: tutti argomenti in sé sensati ma alla fine fittizi, artificiosi, sollevati per prendere tempo e fare melina su primarie che hanno un solo vincitore designato.
Si pensi solo alla tesi secondo la quale in un sistema ormai non più bipolare non si potrà pretendere di avere il proprio segretario di partito come candidato alla guida del governo. Osservazione acuta, che però si preferì ignorare solo otto mesi fa, quando già si sapeva che il Pd pur vincendo avrebbe potuto governare allargando la coalizione oltre il centrosinistra. Eppure il candidato per palazzo Chigi rimase Bersani, riconfermato nel ruolo (dallo stesso famoso patto di sindacato) perfino dopo aver perduto le elezioni. Doppio standard?
Non c’è da stupirsi che poi Matteo perda la pazienza.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.