Aspettate a fare le coalizioni

Il via libera della Cassazione è inaspettato, perché segue logica e buonsenso però va contro quasi tutti i precedenti giurisprudenziali. Da ieri pomeriggio, comunque, i referendum prendono di prepotenza un posto nell’agenda della crisi politica aperta dalle elezioni.

Un posto importante, che il Pd fa bene a presidiare annunciando una energica campagna per la partecipazione al voto con l’obiettivo di un difficile quorum. Bersani reagisce prontamente più che per il merito dei quesiti (almeno quello sulla gestione degli acquedotti lascia dei dubbi), per il loro valore politico di insidia ulteriore al governo e di marcamento nei confronti delle altre componenti del centrosinistra.

La partita referendaria va dunque giocata, però non deve distrarre sul campo di gioco principale, anche perché è molto improbabile che l’esito dell’11 e 12 giugno, qualunque esso sia, possa avere effetti decisivi sul quadro politico.
E che cosa accade sul campo di gioco principale, dalla parte del centrosinistra, mentre Pdl e Lega si smarriscono nel labirinto senza uscita delle proprie crisi parallele?

«Qui già tutti si sentono al governo», scherzava Dario Franceschini martedì sera lasciando il ricevimento nei giardini del Quirinale. Attenti allora, perché sia l’idea di aver già vinto, che la foga di accelerare i tempi della vittoria o di costruirla a tavolino, possono spingere a commettere gravi errori.

Il più consapevole del rischio per fortuna sembra essere Bersani, che ha capito meglio di altri il punto chiave delle comunali: si è messa in movimento una forte corrente di opinione che certamente vuole chiudere con Berlusconi e ridimensionare la Lega, ma che si sottrae alla logica radicali/moderati, e non si farà costringere dentro gli schemi fin qui conosciuti della geometria partitica o coalizionale. Neanche quelli apparentemente eterodossi, come dimostra l’infortunio milanese di Nichi Vendola.
Alla larga dunque sia dai marchingegni da governo di transizione (se viene bene, ma darselo come obiettivo…) che dalle fregole sui patti di coalizione da chiudere al più presto.

Come hanno notato alcuni dirigenti leghisti, e come dimostrano tutte le prime analisi dei dati elettorali, il responso del primo turno delle amministrative – già politicamente molto chiaro e interpretato unanimemente da tutti gli osservatori – ha creato a sua volta un ulteriore spostamento, come se si fosse avvertito un generale messaggio di “liberi tutti”. Potrebbe essere il tradizionale effetto band-wagon, in favore di chi si avverte come vincitore, oppure qualcosa di ancora più profondo.

Fatto sta che i candidati anti-governativi hanno beneficiato ai ballottaggi di un premio ulteriore, in alcuni luoghi reso macroscopico dalle contemporanee perdite secche – in termini di voti assoluti – dei loro opponenti di Pdl e Lega.
Non è affatto azzardato immaginare (anzi, alcuni sondaggisti già lo vedono) che la corrente si sia ingrossata ancor di più dopo i ballottaggi, e che stia continuando a farlo in questo preciso momento anche a causa della reazione attonita (o meglio, della assenza di qualsiasi reazione) da parte di Berlusconi e Bossi.
Nessuna sorpresa dunque che il Pd risulti già oggi, almeno virtualmente, il primo partito italiano. Diremmo che è quasi una legge della fisica: l’attrazione esercitata dalla massa più consistente.

Ma passare dalle regole della idrodinamica o del magnetismo alla politica non è affatto automatico. Si fa presto a rovinare tutto.
La corrente va lasciata fluire.
Guai a dare l’impressione di voler mettere il cappello al popolo arancione di Milano, alla massa elettorale di de Magistris, ai “piccoli” e delusi del Nordest, ai novaresi indignati per l’anti-italianità della Lega, ai cagliaritani fiduciosi nel loro neo-Renzi. Insomma, niente di peggio che farsi scoprire nell’atto di “usare” il loro voto (da parte di partiti che neanche hanno fatto tanto per meritarselo), prima di essersi messi in sintonia almeno con le richieste preminenti fra le molte che vengono espresse.

Ecco perché ci interessa l’idea che da postazioni diverse, ben prima che ragionare sulle coalizioni, partano ora iniziative politiche o legislative sui costi e la funzionalità della politica e delle macchine amministrative nazionali e locali. Ce l’ha in mente Bersani, lo farà Renzi, l’hanno annunciato Pisapia, de Magistris e altri loro nuovi colleghi.
Non sono mosse tattiche per smontare Grillo, che tanto si smonta da sé: è il riconoscimento di una domanda forte, alla quale incredibilmente il centrodestra non ha saputo dare alcuna risposta nonostante fosse nelle condizioni per farlo. Evidentemente il loro dna autentico non era quello della rivoluzione liberale, e poi ha contato l’imborghesimento leghista.
Fatto sta che quel fronte rimane aperto, che quella istanza (che è giusta e politica, tutt’altro che antipolitica) rimane sospesa. Aspettiamo a fissare i paletti di confine e a chiudere le porte di unioni, ulivi e terzi poli: c’è prima altro lavoro da fare, e tanta altra gente che può decidere di entrare.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.