Il film ha sempre ragione: Marco Ponti e Passione sinistra

Prima di tutto, un disclaimer.

Io sono fan di Marco Ponti dai tempi di Santa Maradona. Un film che per me è stato una folgorazione. Insomma, uno della mia valle scrive e dirige il suo film! Quindi, anche se arrivi da Bussoleno (o da Avigliana come lui)

Non solo: Santa Maradona e il suo secondo film, A/R – Andata+Ritorno corrono veloce, fanno molto ridere e sono intelligenti, pieni di idee, di modi diversi di raccontare. Da quel momento sono diventato un fan pauroso. Ogni tanto ci incrociavamo al Torino Film Festival o alla Scuola Holden, dove Marco insegna da parecchi anni. Oppure in America, dove è andato per qualche anno. O semplicemente ad Avigliana. Alla fine non solo siamo diventati amici, ma abbiamo anche scritto una storia di Topolino!

E se c’è qualcuno dal quale ho imparato parecchio, quando si tratta di sceneggiatura, è lui.

Per questo non volevo la solita intervista che parla del suo ultimo film appena uscito, Passione Sinistratratto dal romanzo di Chiara Gamberale. Quella in cui dici quello che TUTTI i giornali hanno già detto. Volevo un’intervista a uno sceneggiatore e regista: più tecnica, piena d’informazioni e dritte per chi vuole fare questo lavoro.

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Come sei arrivato a questo progetto?
La Biancafilm di Donatella Botti aveva i diritti del romanzo e un soggetto già pronto: mancava però un regista per sviluppare la sceneggiatura. A me interessava soprattutto il nucleo della storia: cosa accade quando una donna di solidi ideali di sinistra s’innamora di un uomo di destra? È questo che mi ha incuriosito. La produzione mi ha dato carta bianca per l’adattamento, niente vincoli narrativi. Anche la Gamberale è stata molto disponibile: il suo punto di vista è stato «Voi lavorate, poi ne parliamo».

Come hai lavorato all’adattamento, da romanzo a sceneggiatura?
Come si fa di solito: ho letto il libro una prima volta prendendo parecchi appunti. Poi ho lavorato su quelle note, partendo dai momenti, dai personaggi che m’interessavano.

Soprattutto, ho dovuto chiedermi cosa NON mettere nella sceneggiatura. Il romanzo ha un arco narrativo molto più lungo: incontriamo i protagonisti da ragazzini, poi da giovani, e la storia finisce quando noi in un certo senso iniziamo, quando entrambi sono adulti. Il romanzo finisce a metà di quello che nel film è il primo atto, avviando le grandi dinamiche della storia: la Gamberale l’ha inteso come romanzo breve, che per definizione è più aperto, come struttura, rispetto a una sceneggiatura.

Così ho deciso di eliminare radicalmente tutto il passato dei personaggi, che emerge dai personaggi stessi, in sceneggiatura: volevo evitare i flashback, ai quali non credo molto… a meno che non siano quelli di C’era una volta in America. Il film, così, è più concentrato sull’oggi.

La prima domanda che mi sono fatto è stata: che genere è? Una volta deciso che sarebbe diventata una commedia romantica e brillante, i personaggi e i caratteri sono diventati più chiacchieroni, più smart. Questo tipo di commedia presuppone che le cose, alla fine, si sistemino. Il che non significa un happy ending banale e consolatorio. Harry ti presento Sally e Io e Annie finiscono in modi diversi, ma entrambi finiscono, e lo fanno in modo preciso: i personaggi trovano una loro quadratura. Da questo, dunque, dipende anche il finale. Insomma, l’adesione al genere è un momento importante.

Storyboard di Cristiano Spadavecchia per il film (dalla pagina Facebook di Marco Ponti)

E poi?
Il passo successivo è stato: quali personaggi e sottotrame potevo aggiungere? Ho messo alla prova la fede della donna di sinistra mettendola a lavorare al discorso d’insediamento di Andrea Splendore, giovane candidato sindaco di Roma (Glen Blackhall, che io conosco bene, NDR). In questo c’è l’influenza del Discorso del Re e di varie cose che ho letto sugli speechwriter di Obama.

La sorellina di Giulio (Rosabell Laurenti Sellers) nel romanzo era un’adolescente anoressica e problematica: io l’ho reinterpretata alla Tim Burton. Soprattutto ho inventato la sottotrama di Serge, il custode della villa (Jurij Ferrini), perché mi mancava un mentore. Serge e Andrea definiscono Nina: il politico giovanilista e cialtrone mette alla prova la sua fede, mentre Serge l’aiuta a trasformarsi in un personaggio diverso.

In un film come questo, poi, devi ragionare sull’attualità. Una divisione classica, fascisti contro comunisti, sarebbe stata anacronistica. Ed è proprio la collisione tra una donna convinta di avere il “pacchetto” (abitudini, passioni, fisse e paranoie) della persona di sinistra e un uomo che ha un “pacchetto” di destra, a far capire a entrambi che sono concetti anacronistici. Anzi, la realtà va anche oltre! La produttrice ha avuto l’idea di inserire la canzone di Gaber (qui l’originale, qui la cover di Marco Mengoni che appare nel film). Gaber stesso si chiede cosa sia di destra o di sinistra… e spesso non lo sa. Cos’è davvero di destra o di sinistra oggi? Non lo sappiamo più.

Come hai lavorato sulla struttura del film?
Sono partito dallo schema classico dei tre atti, un vero e proprio schema visivo, alla Syd Field, ma con influenze di Chris Vogler e McKee. Una linea dritta dove metti le cose da far succedere, e quando. Poi ho scritto uno “scalettone” dei punti logici della storia, lavorando su sequenze, non su scene: lei fa questo, lui fa quello. E poi subito a sceneggiare. Non scrivo soggetti, soprattutto se si tratta di una commedia: non mi piacciono e tolgono energia al lavoro. Nella commedia contano il dialogo, il ritmo, e quelli si vedono in sceneggiatura. In un film drammatico, invece, il soggetto conta eccome: la storia e la sceneggiatura diventano un progetto visivo.

Cosa è cambiato nell’arco delle varie stesure della sceneggiatura?
La prima stesura è sempre troppo lunga e piena di cose che prima o poi spariranno. All’inizio c’era tutta una parte di trama molto complicata, che serviva a rispondere a una domanda: come fanno i due a incontrarsi? Per caso? Troppo facile. Avevo pensato a mettere in gioco il padre di Nina e un suo piano per far mettere insieme lei e Giulio: molte scene malinconiche e un incontro tra i due che finiva per essere combinato, quasi una beffa del destino. Nel romanzo, il padre di Nina era un giudice che faceva arrestare il padre di Giulio, che invece architettava il loro incontro anni dopo, quasi a mo’ di vendetta per far sì che il figlio rovinasse anche la famiglia di Nina.
Tutte cose che con una commedia romantica non c’entrano. Così, nell’arco delle varie revisioni ho deciso di farli incontrare e basta: il pubblico, del resto, non si pone il problema. E quando inizia il film, il padre di Nina è già morto, ma è importantissimo, per la storia.

La scena in cui Nina finalmente piange suo padre è molto bella, col primo piano e la luce in camera.

Abbiamo dovuto imbragare l’operatore per metterlo sul dirupo e ottenere quella luce! Nel romanzo la casa era in città: tutta la vicenda si svolgeva in una città non ben specificata del Nord e c’era una villa, ma in Liguria. Quando poi per ragioni produttive abbiamo ambientato il film a Roma, io e lo scenografo Francesco Frigeri abbiamo cercato una villa sul litorale laziale. E Francesco mi ha insegnato una cosa importantissima. Io cercavo una bella villa, ma lui mi ha fatto cambiare prospettiva: non importa la villa, ma il panorama, cosa vedi da fuori. Cosa vedono i personaggi, insomma.

Pagina di sceneggiatura annotata con storyboard di Cristiano Spadavecchia per Passione Sinistra

Pagina di sceneggiatura annotata con storyboard di Cristiano Spadavecchia per Passione Sinistra

In quali personaggi sei entrato subito, e quali sono stati più difficili da cogliere?
Ho lavorato molto su Giulio, perché volevo non fosse semplicemente un cliché detestabile. Cosa ti fa innamorare di uno come lui?
Paradossalmente ho fatto più fatica con Nina. Arrivando da quel mondo era più difficile coglierla, e forse alla fine, nel film si nota più la critica alla sinistra: standoci dentro, è un mondo che conosco meglio. Quando i miei amici radical chic mi fanno incazzare, si vede! (ride) Giulio è forse più idealizzato, nel bene e nel male. Ma entrambi hanno lati positivi. Nina è convinta che il suo uomo, Bernardo, sia perfetto: ma è egoista ed egocentrico, per nulla empatico. Giulio, invece, con tutti i difetti che ha, è umano, vede le sue debolezze e la ama. Lo si vede bene nella reazione dei due alla morte del padre di Nina. Bernardo semplicemente dice «è morto, non c’è più»: è un materialista, non capisce che per Nina è importante vivere questo addio. Giulio, invece, capisce che per lei è proprio questo il problema; e lo lega alla felicità. Capisce che Nina dà importanza alla felicità, e la porta nel posto in cui suo padre è stato felice. Sia Alessandro Preziosi che Vinicio Marchioni si sono superati, nei loro ruoli. Vinicio, ad esempio, ha voluto interpretare un personaggio negativo, senza redenzioni né uscite di sicurezza: uno che parte “figo” e finisce per essere il peggiore di tutti. E Vinicio ha voluto fare tutto questo, con entusiasmo.

Cosa hai eliminato dalla sceneggiatura e poi dal film finito, in termini di scene?
Un finale più lungo, una scena con Giulio al poligono di tiro, e addirittura un’invasione aliena! Nell’ultima versione elimini tutto quello che non serve, e ripulisci. Come succede anche durante le riprese e soprattutto al montaggio. Insomma, vai all’essenziale. Il mio montatore, Clelio Benevento, è stato molto chiaro: se una scena non c’entra con lo spirito del film ma piace a te, non metterla! Il film non serve a “fare il figo”, ma a raccontare una storia. Chi ha ragione? Solo il film.

La scena al poligono, ad esempio, funzionava ma non era consona a quello che accade dopo, diventava una stonatura. Naturalmente è difficilissimo tagliare, dopo mesi di lavoro su un film. Perché ricordi quando hai girato quelle scene, quanto sono (e ti sono) costate. Per questo Clelio non ha voluto essere sul set: per non vedere quanto tempo e quanta fatica sono necessarie per ogni scena. Se va tagliata, quella scena deve valere come tutte le altre. Se non funziona, la taglia e basta. Così è più lucido e aiuta il regista, che quando arriva al montaggio non è più lucidissimo.

Il momento peggiore delle riprese. E il migliore.
Il peggiore, girare la scena al circolo canottieri. Tante comparse, un’azione scenica complessa, un momento emozionante. Ma ti rendi anche conto che per girarla ci vuole molto più tempo, che non avevamo. L’orologio corre e ti accorgi che quello che in sceneggiatura fluiva bene ed era facile da scrivere ora è un problema: un centinaio di persone VERE, ogni momento costa tempo, minuti, ore, casino, la troupe si stanca, si finisce a tarda notte. Insomma, occhio alle scene di massa delle quali non sei davvero innamorato!

Il momento migliore, invece, è stato il primo ciak di Serge/Jurij Ferrini. Era appena arrivato, nessuno lo conosceva, la troupe non sapeva come avrebbe affrontato il personaggio. E lui si era volutamente tenuto defilato. Inoltre era un ciak lungo, in cui Serge si presenta a Nina. Alla fine del ciak c’è stato un lungo silenzio, poi, un applauso. Tutti felicemente sorpresi. Era notte, è stato un bel momento: anche una troupe così esperta, ha visto tutto, si è fermata di colpo, perché Jurij ha fatto qualcosa di speciale.

Dove, quando e come scrivi?
Lavoro con Final Draft, comprato, non craccato! (ride). Mi piace scrivere all’aperto, soprattutto ad Avigliana, al bar del Circolo Velico. È un po’ il mio ufficio: un posto molto bello e allegro, dove gli amici possono venire a trovarti a pranzo, con una caratteristica fondamentale: è un luogo pubblico, quindi NON posso perdere tempo, “svaccare”. Se faccio il cretino o sto su Internet, la gente se ne accorge! Così mi sento quasi obbligato a concentrarmi. In casa è più facile andare online, fare spuntini, guardare un film, disperdersi.

Domanda marzulliana, ma inevitabile: i tuoi prossimi progetti? Più che altro, perché sono curiosissimo.
Questo film per me è stato una specie di prova generale, dal punto di vista dei rapporti tra regista/sceneggiatore, attori e troupe. Abbiamo cominciato a conoscerci: ad esempio non avevo mai lavorato con Alessandro o Jurij. L’idea è di fare un secondo step, un’evoluzione: un’altra commedia. Non l’abbandonerò mai, la commedia: ma sento anche il bisogno di abbinarle altre cose. Farei uno spaghetti western, ma in Italia non si fanno. Lo farei subito… ho anche un soggetto, un po’ Sergio Leone un po’ Gli Spietati.

Comunque, un film molto serio e uno molto allegro si nutrono a vicenda. Il drammatico si nutre del comico e viceversa: se c’è il comico il drammatico non ti ossessiona, hai uno sfogo di allegria e speranza, e viceversa il drammatico ti permette di essere più leggero. Il mio obiettivo immediato è provare a scrivere le due cose insieme, una al mattino e una al pomeriggio, entrambe con lo spirito giusto.

Con tre figli, come fai?
Paradossalmente, scrivo bene quando non ho tempo. Altrimenti mi disperderei. È come quando inizi a scrivere per lavoro, e magari devi fare qualcos’altro per mantenerti: scrivi e pensi ovunque. La mancanza di tempo ti aiuta a essere più responsabile.

Ultima domanda: la smetti di battermi a Ruzzle? Ho un ego fragile.
(Ride) Ormai ho smesso, ma guarda che tu eri l’unico che riuscivo a battere!

Grazie a Marco per la sua disponibilità, e per un estratto della sceneggiatura del film: l’inizio originale, con la scena al poligono di tiro di cui si parlava prima. Altro disclaimer: fa molto ridere.

(Ha collaborato Michela Cantarella)

Roberto Gagnor

Roberto Gagnor (Torino, 1977) scrive fumetti per Topolino dal 2003. È sceneggiatore e autore televisivo e radiofonico. Ha vinto il concorso Talenti in Corto con il suo ultimo cortometraggio, Il Numero di Sharon. Insegna sceneggiatura all’ICMA di Busto Arsizio e all'Accademia 09 di Milano.