Il microblog cambia la Cina, le donne lo Yemen e de Botton lancia l’ateismo 2.0

Comincio da un episodio laterale. A un certo punto della prima sessione pomeridiana (oh, qui la conferenza dura undici ore al giorno…), c’era da fare un cambio scena per fare posto ad una orchestra e alla performance di Charles Hazlewood (uno che ha portato la Carmen di Bizet in un ghetto sudafricano – il film è stato presentato al festival di Berlino – e che sostiene che alla base della musica c’è la fiducia sennò non c’è musica). A un certo punto, per far passare un paio di minuti il gran capo del TED Chris Anderson ha chiesto al pubblico di dire qualcosa di notevole in una frase. Ora il pubblico del TED è fatto di geni, molti veri, altri presunti immagino. Gente quando leggi cosa fanno sul badge quasi arrossisci. Insomma, è partita una gara di frasi intelligenti fra applausi e sghignazzi. Finché uno, in fondo, non ha chiesto: “Ma il TED è una nuova religione?”. Qui Anderson non ha riso e ha tagliato corto: “No”. Eppure il sospetto di una qualche forma di religione ti viene alla fine del terzo giorno e mezzo di TED Global 2011, dopo una quarantina di speech dove hai sentito di tutto.

Persino, è capitato ieri, che alla Claremont Graduate University della Southern California, il giovane e aitante professor Paul Zak , definito Neuroeconomist, abbia scoperto che esiste un ormone della bontà, l’ossitocina (non l’ha scoperta, ne ha scoperto gli effetti…). Insomma questa ossitocina ci stimola ad essere fiduciosi verso gli altri, aperti, disponibili; ma non basta, perché le comunità dove c’è più fiducia hanno tassi di criminalità più bassi, livelli di istruzione più alti, maggiore crescita economica e sono quindi più felici! (ergo, “abbracciatevi almeno otto volte al giorno!”).

Eppure, nonostante qualche stravaganza (non Zak, percarità, la sua ricerca sarà pure serissima), questa giornata di TED Global 2011 è stata densa di storie di vita reale che fanno immaginare un altro mondo. Anzi, non lo fanno immaginare, ce lo fanno vedere, in carne ed ossa. Merito va dato alla guest host che ha curato la sessione mattutina, Pat Mitchell, una signora americana definita Media Leader per la sua energia nel gestire il Paley Center for Media di New York City (dove mi ospitò per chiudere la campagna Internet for Peace lo scorso settembre). Per affrontare il tema della necessità di capire e abbracciare gli altri da noi (Embracing the Otherness), la Mitchell ha subito messo in fila tre donne che ci hanno esaltato. Ha aperto l’attrice Thandie Newton con un discorso di una profondità e di una intimità rare che è partito dalla sua infanzia, figlia di un papà della Cornovaglia e di una madre dello Zimbawe. Ha detto per esempio: “From the age of 5 I was aware I didn’t fit. I was the black atheist kid in the all-white Catholic school”. E poi: “Race has no basis in biological or scientific fact … Race is an illegitimate concept which comes from our self”. Tutto il suo ragionamento era sul superamento del self: e alla fine i 700 dell’Edinburgh International Conference Centre sono scattati in piedi in una big standing ovation, come l’ha definita in un tweet Anderson.

Con la Newton eravamo ancora in gran parte nel campo della teoria, la storia vera è entrata con i successivi due interventi. La cinese Yang Lan , presentata come la Oprah Winfrey di Pechino (ha una audience settimanale di 250 milioni di persone e su Twitter qualcuno ha osservato che forse è corretto dire che Oprah è la Yang di New York). Ha una bella vita da raccontare: ha vinto un concorso da giovane contestando la commissione che cercava una ragazza dolce e sorridente (e lei, che pure lo era, ha chiesto, ma una ragazza in televisione non può semplicemente essere normale? domanda da antivelina…). Da allora conduce il primo show cinese i cui testi non sono approvati prima dal governo e questo farebbe pensare ad una filo governativa e invece nel suo discorso su come i social media stanno cambiando la Cina c’era molto di più (altrimenti non si sarebbe capito che ci faceva al TED…). Ha raccontato tante cose che non sapevo: per esempio che ci sono molti più maschi di femmine per la politica governativa one child e gli aborti selettivi; ha detto che i poveri fanno delle naked marriage senza niente ma almeno si giurano amore eterno; ha rivelato che i cinesi non solo copiano tutto a noi occidentali ma che anche lì ci sono carne falsa e persino uova false. Ma soprattutto ha rivelato che il microblog sta esplodendo in Cina, non Twitter ma Tencent e Sina Weibo. C’è un attore che ha 9,5 milioni di followers. Il punto non sono i vip, però. Sono i giovani ad usarlo: 340 milioni di users, l’80 per cento con meno di 30 anni. Per la immediatezza e la difficoltà di controllarlo, il microblog è diventato lo strumento per esprimersi e protestare “garbatamente”. “Social Justice and Government Accountability is what young people demand first [in China]”. Quando Yang Lan ha finito il suo discorso la sensazione che anche la Cina stia cambiando grazie a Internet era in sala quasi una certezza.

La terza donna della mattina è arrivata con il capo coperto da un velo che le incorniciava il giovane viso e non ha fatto uno speech ma un dialogo con Pat Mitchell: la storia che ha raccontato è stata però la più emozionante. Nadia Al-Sakkaf è il direttore dello Yemen Times, il quotidiano in lingua inglese dello Yemen, scosso in queste settimane da una rivolta in cui le donne hanno un ruolo fondamentale. E’ diventata direttore quando il papà è stato ucciso. Quando era una bambina, e studiava in Occidente, con altri valori e altra cultura, una volta chiese al papà: “Ma io chi sono davvero?”. E lui: “Tu sei il ponte”. Quando è diventata direttore nessuno le credeva: “A woman has to do what a woman has to do, in the first year I had to fire half of the men”. Ha poi raccontato cosa sta accadendo nelle Yemen, e della incapacità dei media occidentali di capirlo e raccontarlo: “In times of revolution, one message to the West: It’s very important for YOU to listen to OUR voice… I wish the world would know my country, my people… There are more like me…”. Conclusione: “You fear what you don’t know and you hate what you fear” e standing ovation mondiale via Twitter.

Questa incredibile sessione aveva anche il regista ghanese Jarret Merz, che è tornato in patria per raccontare le elezioni, ha assistito ai brogli e al popolo che è sceso in piazza cantando “we want peace” e ha vinto, perché “yes, we africans can”. E si è chiusa con Bunker Roy e la incredibile storia del Barefoot College, la scuola per i poveri che ha fondato in India, guidata ogni volta da un primo ministro eletto fra i bambini (quello attuale ha 12 anni) e che è diventato un modello in tanti paesi (“fully solar powered, no water waste, night shift so during the day they can work…). Roy ha grinta, una ironia sferzante contro le ricette della Banca Mondiale (ha portato sul palco una bambola fatta con un report della banca) e una forza morale incredibile. Il nuovo Ghandi, dicono alcuni. Non lo so, avrei voluto parlarci ma me lo sono perso. Mi è rimasta una sua frase: “Il miglior mezzo di comunicazione non è il telefono, non è il telefax, non è la televisione: è la tele-donna” (per dire che per far sapere una cosa a un villaggio bastava dirlo alle madri.

Il pomeriggio è stato ugualmente notevole ma centrato su temi medici (Living Systems e Feelings i due titolI). Segnalo fra el altre cose gli eccezionali trapianti di braccio con mobilità di polso e dita di Todd Kuiken, gli studi di Alison Gonpnik sull’apprendimento dei bambini (“a quattro anni sono il più potente computer del mondo… sono il dipartimento ricerca e sviluppo della razza umana”.

Ma quello che davvero ci ha fatto saltare sulla sedia è stato il discorso del giovane filosofo Alain de Botton: ha parlato di religione, e di ateismo, e del buono che i non credenti possono imparare dalle religioni. E lo ha fatto con un acume e uno smalto che ci ha deliziato. Quando il video sarà online non perdetelo.

Intanto, dopo il talk di Rebecca MacKinnon su Internet, già verso le 100 mila views in un giorno, ieri è stato messo online anche quello Maajiid Nawaz, passato dalla militanza islamica alla galera e alla militanza antiestremista diventando un leader. Anche per lui una frase: “We have to vote in a democracy not for a democracy”. Buona visione.

Riccardo Luna

Giornalista, sono stato il primo direttore dell'edizione italiana di Wired e il promotore della candidatura di Internet al Nobel per la Pace. Su Twitter sono @riccardowired Per segnalare storie di innovatori scrivetemi qui riccardoluna@ymail.com. La raccolta dei miei articoli per Wired è un social-ebook scaricabile da www.addeditore.it.