Perché non ho partecipato al voto del nuovo Porcellum

Per prima cosa, una precisazione fondamentale rispetto all’andamento del voto in aula di questi giorni.

Questi sono gli esiti delle votazioni sui principali emendamenti presentati:

335 no contro 227 sì all’emendamento sul 50-50 (parità di genere).
298 no contro 253 sì all’emendamento sul 60-40 (norma anti-discriminatoria).
282 no contro 264 sì all’emendamento sulle preferenze.
297 no contro 277 sì all’emendamento sulle doppie preferenze di genere.

Vorrei ricordare che la componente che ho rappresentato al congresso è composta da 7 deputati, pari al 2% del gruppo del Pd. Non ho dato indicazioni di voto ai miei colleghi, ma anche se l’avessi fatto e tutti fossero stati convinti dalla mia richiesta, non sarebbero e non saremmo stati determinanti. E ciò conferma quanto ha cercato di spiegare Popolino, qualche giorno fa.

Al Senato i valori sono diversi, come sa chi legge questo blog, ma qui alla Camera non siamo influenti e come tali siamo trattati dal gruppo che non ha nemmeno inteso riprendere il mio appello sul conflitto d’interessi. Né le altre osservazioni presentate sulla legge e su altri passaggi molto delicati. Come se i 400.000 elettori delle primarie che hanno scelto di sostenermi fossero in realtà funzionali solo a sostenere gli altri. E non è così che si coltiva il pluralismo: senza riconoscimento, non c’è dialettica democratica. E anche se tutti hanno già cambiato idea molte volte in poche settimane, ribaltando tutto quello che avevano promesso di fare (e di pensare), segnalo che il Congresso si è svolto solo tre mesi fa.

Tutto ciò premesso, e ricordando che non abbiamo voluto drammatizzare in aula il mio e nostro disagio (come hanno fatto altri, con interventi molto più plateali), le ragioni della nostra contrarietà sono troppo grandi per essere taciute.

La prima, riguarda il nostro mandato elettorale: perché la disciplina di partito è importante (e, credetemi, vivo questi passaggi con grande sofferenza), ma questa legge si allontana troppo (come hanno spesso ricordato gli amici e compagni di Sel che con noi sono stati eletti) dal mandato ricevuto dagli elettori, anche perché prefigura una scombossulata riforma del Senato, assunta psicologicamente (e presuntivamente) con l’idea geniale di votare una legge che è valida solo per la Camera, forse l’aspetto più deprecabile tra i molti difetti di questa legge.

La seconda, è che pur riconoscendo l’importanza di far partire il famoso treno delle riforme (treno che abbiamo sinistramente chiamato Italicum), non si capisce perché abbiamo fatto in relativa fretta una legge elettorale che non è pronta all’uso, perché si potrà adottare solo dopo una riforma del Senato (che per sua natura necessita di parecchi mesi, anche ammesso che su di essa vi sia un accordo che, allo stato attuale, non esiste) e perché Renzi, presentando il suo governo, ha dichiarato di volere andare fino al 2018. Non si capisce perché votare una legge di corsa se poi si vota tra quattro anni o, nella migliore delle ipotesi previste, tra un anno e mezzo.

La terza, è che questa legge è fatta male. Ma male. Ma proprio malissimo. Ci sono le liste bloccate: si dice che siano più corte, ma c’è la candidatura multipla fino a otto collegi dello stesso candidato, che la Corte costituzionale ha ritenuto incostituzionale. Ciò, unito all’algoritmo che è stato adottato, per la assegnazione nazionale dei seggi, consente una totale inconoscibilità della destinazione del voto. Non solo per l’elettore: anche per l’eletto. Nel senso che anche i candidati non sapranno fino all’ultimo se saranno eletti o se prevarranno logiche di partito (e del capo) che cambieranno le graduatorie finali. Una novità addirittura peggiorativa rispetto al Porcellum.

In più, ci sono soglie abnormi: la nostra proposta era di portarle tutte al 4% (una soglia comunque alta) sia per le forze coalizzate che per quelle non coalizzate e soprattutto per portare alla coalizione i voti da conteggiare per l’attribuzione del premio di maggioranza, per evitare che una coalizione si componga di una miriade di partitini – magari creati al momento con una logica di mero marketing – destinati a rimanere certamente fuori dal Parlamento (magari in cambio di qualche nomina pubblica) ma buoni per portare voti al partito o ai partiti più grandi della coalizione (i cui risultati sarebbero quindi doppiamente gonfiati). C’è poi un premio di maggioranza attributo sopra una soglia (37%) che è il frutto delle peggiori mediazioni (noi avevamo chiesto di portarla almeno al 40%, che se avessimo voluto usare la soglia della legge dei sindaci – tanto spesso richiamata a modello – sarebbe stato necessario arrivare al 50%).

In più, oltre alle soglie e alle candidature multiple, c’è stata la pessima figura sulla norma anti-discriminatoria (almeno il 40% di candidature di genere diverso) e su quella ancora più impegnativa della parità di genere: è andata come sapete, anche perché partito e gruppo non hanno dato un’indicazione di voto. Caso più unico che raro e molto grave, anche per le ovvie conseguenze che ha determinato.

Da ultimo, l’idea di separare Camera e Senato, come ho detto, è una mezza follia, che non consente di votare. Anzi, quasi lo impedisce. E consentirà a tutti di adottare il solito argomento: come si fa ad andare a votare con questa legge elettorale (da oggi diremo: queste leggi elettorali).

Ma c’è un problema precedente, che infatti aveva portato molti colleghi – che nel frattempo si sono allineati e anzi si sono fatti promotori di soluzioni peggiorative – a dichiarare che non avrebbero votato la legge se questa non fosse migliorata.

La legge, rispetto al deliberato della direzione (da cui si è allontanata, soprattutto per il punto che riguarda la simultaneità della riforma per Camera e Senato, e altri particolari che ho qui richiamato), è peggiorata. Ed è stata approvata in ragione di un accordo che riguarda ormai solo Pd e Forza Italia, perché nel frattempo le altre forze politiche delle due maggioranze che Renzi ha inteso apparecchiare si sono largamente squagliate: chi votando palesemente in difformità dall’accordo, chi dichiarando la propria astensione finale, chi dichiarandosi sconcertato per alcuni passaggi delle votazioni di questi giorni. L’accordo, maturato prima che Renzi decidesse di sostituire bruscamente Letta, è un accordo che regge solo così, perché c’è un accordo. Una tautologia molto pericolosa, visti gli esiti, e l’impossibilità di migliorare il testo, perché altrimenti non c’è più l’accordo. Come se il Parlamento non potesse intervenire mai, in nessun modo, con un mandato non vincolante. Di più.

Per tutte queste ragioni, ho votato contro allo stralcio dell’articolo 2 (quello che escludeva dalla riforma il Senato, che rimane con la legge uscita dalla Consulta), non ho partecipato al voto sugli emendamenti che avevo firmato sul conflitto d’interessi, mi sono astenuto sulle primarie, ho sostenuto tutti gli emendamenti che si riferivano alla questione di genere, ho votato perché fosse semplificata la vita per chi, lavorando all’estero, voglia votare.

Per i motivi che ho ricostruito qui sopra, il mio voto conta quello che conta. Ma non potevo votare una legge elettorale di cui non condivido quasi nulla. A tutto c’è un limite. E c’è l’articolo 67 della Costituzione, che, tra l’altro, consente ai singoli parlamentari di NON accettare una decisione del proprio partito soprattutto quando fa quello che NON aveva dichiarato di fare (o addirittura aveva dichiarato di NON fare) in campagna elettorale. Per me conta ancora qualcosa, anche se ormai è chiaro che si farà fatica, in questo Paese, anche ad andare a votare.

Pippo Civati

Pippo Civati è il fondatore e direttore della casa editrice People. È stato deputato eletto col Partito Democratico e ha creato il movimento Possibile. Il suo nuovo libro è L'ignoranza non ha mai aiutato nessuno (People).