La nuvola fantozziana sul conflitto generazionale

Ne Il midollo del leone, il libro di Alfredo Reichlin appena uscito in libreria – che vale la pena di leggere, fin dalla irresistibile scelta del titolo calviniano – ho ritrovato un Gramsci utilissimo per precisare l’estenuante discussione tra giovani e vecchi del Pd. Ci arrivo subito, non prima di aver espresso la mia personalissima solidarietà umana e politica a Fabrizio Gifuni, a cui il Pd ha dato proprio un bel ‘benvenuto’, dimostrandosi profondamente irrispettoso nei confronti dei contenuti del suo discorso e, cosa ancor più grave, del tutto incapace di pensare il pluralismo: quel pluralismo per cui ciascuno si esprime come crede, per dire cose che tutti possano condividere.
Ma veniamo a noi, perché non abbiamo più molto tempo da perdere.
Il tema del ricambio – e del ‘rimango’ – generazionale è stato recentemente affrontato in seguito a una battuta di Romano Prodi (i famosi calci negli stinchi…) e ritorna ciclicamente come se si trattasse di un fenomeno astronomico: quasi una rivoluzione, nelle forme però soltanto di una sua retorica rappresentazione.
Ecco Gramsci:

Una generazione può essere giudicata dallo stesso giudizio che essa dà della generazione precedente, un periodo storico dal suo stesso modo di considerare il periodo da cui è stato preceduto. Una generazione che deprime la generazione precedente, che non riesce a vederne le grandezze e il significato necessario, non può che essere meschina e senza fiducia in se stessa, anche se assume pose gladiatorie e smania per la grandezza. È il solito rapporto tra il grande uomo e il cameriere. Fare il deserto per emergere e distinguersi. Una generazione vitale e forte, che si propone di lavorare e di affermarsi, tende invece a sopravalutare la generazione precedente perché la propria energia le dà la sicurezza che andrà anche piú oltre; semplicemente vegetare è già superamento di ciò che è dipinto come morto.
Si rimprovera al passato di non aver compiuto il compito del presente: come sarebbe piú comodo se i genitori avessero già fatto il lavoro dei figli. Nella svalutazione del passato è implicita una giustificazione della nullità del presente: chissà cosa avremmo fatto noi se i nostri genitori avessero fatto questo e quest’altro…, ma essi non l’hanno fatto e, quindi, noi non abbiamo fatto nulla di piú. Una soffitta su un pianterreno è meno soffitta di quella sul decimo o trentesimo piano? Una generazione che sa far solo soffitte si lamenta che i predecessori non abbiano già costruito palazzi di dieci o trenta piani. Dite di esser capaci di costruire cattedrali ma non siete capaci che di costruire soffitte.

Le soffitte fanno un po’ bohème e ci parlano di case difficili da acquistare (e anche, accidenti, da affittare) e di precariato e di diritti che non ci sono più. E di chi fa il cameriere, magari, per pagarsi gli studi. O i praticantati. O gli stage. E ci parlano, soprattutto, di una consapevolezza che manca a tutti noi, uniti soltanto  dall’incapacità di dire la nostra.
Ma il punto gramsciano è abbastanza definito e va oltre: del resto, da tempo penso che non ci sia bisogno di un conflitto generazionale, ma di un confronto consapevole e rispettoso e, se si può sincero, che farebbe molto bene al Pd e al Paese intero. Lasciando da parte sia le «pose gladatorie» (!) che la meschinità di molti. Quasi tutti.
In breve, si tratta del riconoscimento dell’altro, del predecessore e del successore, non in senso burocratico – come ha fatto Bersani, rispondendo a Prodi («ho nominato un sacco di giovani», come se fosse così che si trova la soluzione) – ma in senso dialettico e, quindi, culturale e politico.

Ma c’è una sfumatura di senso che metterei ancora più in evidenza. L’aspetto stricto sensu generazionale: ovvero, quello che per una generazione deve rappresentare il suo obiettivo e la sua missione. E da Gramsci si passa così a Obama, in vari luoghi dei suoi discorsi, quando il presidente degli Stati Uniti parla del compito di una generazione, la sua, la nostra. E alla generazione corrispondono precise sfide: sulla politica internazionale, sulla globalizzazione, sugli armamenti e sui cambiamenti climatici. In breve, sul nostro mondo (che è nostro anche se è stato pensato e organizzato da chi ci ha preceduto) e sul segno da lasciare, sul compito da svolgere, sull’impegno da assumere.

Berlino, 24 luglio 2008

These are the aspirations that joined the fates of all nations in this city. These aspirations are bigger than anything that drives us apart. It is because of these aspirations that the airlift began. It is because of these aspirations that all free people – everywhere – became citizens of Berlin. It is in pursuit of these aspirations that a new generation – our generation – must make our mark on the world.

Praga, 4 aprile 2009

Now, we share this common history. But now this generation — our generation — cannot stand still. We, too, have a choice to make. As the world has become less divided, it has become more interconnected. And we’ve seen events move faster than our ability to control them — a global economy in crisis, a changing climate, the persistent dangers of old conflicts, new threats and the spread of catastrophic weapons.

UN, 22 settembre 2009

Our generation’s response to this challenge will be judged by history, for if we fail to meet it — boldly, swiftly, and together — we risk consigning future generations to an irreversible catastrophe.

Credo che questo sia il punto. La nuova generazione deve essere capace soprattutto di rappresentare, di organizzare il consenso, di affrontare i compiti che la riguardano, di condividere il senso delle sfide e di parlare con «parole sue» a qualcuno che finora non è stato mai rappresentato. In un colpo solo, se così facessimo, sparirebbe questa sensazione di dibattito tipo scapoli e ammogliati (con l’immancabile nuvola fantozziana) che ci accompagna. Ci renderemmo conto che il problema non è quello dei giovani dirigenti, ma quello dei giovani elettori. E sapremmo che non si tratta affatto di un dibattito interno, ma del dibattito più esterno che si possa immaginare.

Ci vuole sì un partito dei giovani, che sappia però immediatamente rovesciare il dato anagrafico in una proposta di senso politico, che sappia coinvolgere i «nativi» del Pd (e tutte le loro tribù, dagli Apache ai Seminole, coast to coast) ma anche e soprattutto i cittadini che hanno meno di trent’anni, che non hanno visto altro che Berlusconi e che non sono preoccupati di quello che ha fatto e fa la generazione precedente ma di quello che può fare la propria. Dalle soffitte di Gramsci ai ponti di Obama. Anzi, agli airlift, per volare un po’ più in alto, librandosi nel cielo, più in alto delle proprie soffitte e dei propri monolocali.

Pippo Civati

Pippo Civati è il fondatore e direttore della casa editrice People. È stato deputato eletto col Partito Democratico e ha creato il movimento Possibile. Il suo nuovo libro è L'ignoranza non ha mai aiutato nessuno (People).