Totò cerca casa, ai Parioli

I palazzi sono incredibili contenitori di storie. Dentro le loro mura vivono milioni di esistenze. Meriterebbero tutte di arrivare a noi, ignari passanti che le sfioriamo ogni giorno, continuamente, sottovalutandole, trascurandole, ignorandole. Voltando le spalle a incredibili occasioni. Osservo sempre i palazzi, è un modo meraviglioso per passare il tempo. Mentre sono intento a farlo fantastico attorno ai loro aspetti più svariati. Lo stile, l’epoca, la forma, il colore, i portoni, le crepe, i soffitti che si intravedono, i pavimenti degli androni, i nomi sui citofoni, quelle macchie create da chissà quale infiltrazione di umidità, i canoni estetici delle finestre che talvolta mutano da un piano all’altro, la disposizione delle piante nelle terrazze. Ci si può beare persino del pensiero della loro assenza, tornando con la mente a quando magari in quel punto c’era solo uno spiazzo di terra. Ma soprattutto immagino chi li abita. Camminando di sera, lungo le file caotiche di quegli squarci domestici vengo preso spesso da un brivido. So che c’è vita dietro quelle finestre, dentro quelle stanze, sotto quelle luci accese e un po’ ne avverto il peso. Non posso non pensare al fatto che mentre procedo a passo svelto sul marciapiede sono a pochi metri da esistenze delle quali non so nulla. Allo stesso modo so di essere all’oscuro di quelle che le hanno precedute, ignorando totalmente anche quelle che hanno partecipato alla costruzione della storia di cemento che le raccoglie.
Così qualche volta mi fermo. E ogni tanto le cerco. Le aspetto. So che esistono. E se sono fortunato succede che arrivino anche a me. Una chiacchiera sfuggente con un custode, un vecchio ritaglio di giornale, qualche immagine trovata nella rete. Sappiamo tutti che la storia dell’uomo è fatta di singole storie di uomini, che gli strati possono essere infiniti e le vicende tante quanto i tasselli di un tempo eterno. Pertanto per scoprirne una so che basta fermarsi su una coordinata, una qualunque, per aprirsi a una vicenda che è stata vissuta in un punto e solo in quello. Talvolta può accadere che anche l’involucro stesso abbia una storia degna di essere raccontata. E quindi se la storia contiene quella del palazzo e questo raccoglie le vicende di chi lo ha abitato allora il racconto può diventare una narrazione di narrazioni, una matrioska esistenziale, una sorprendente scatola cinese.
È quello che mi è capitato una volta, fermo sul pizzo di un marciapiede, di fronte a un incrocio di strade e di destini. Ogni angolo di una città contiene infiniti racconti, ogni Roma, ad esempio, ha avuto le sue storie: quella imperiale, quella barocca, quella fascista, quella bellica e quella della rinascita. Appartengono a quest’ultima la storia e le storie della palazzina che sorgeva di fronte a me, in Viale Bruno Buozzi, nel quartiere dei Parioli, a nord di villa Borghese. Posizionandomi di fronte ad essa, all’altezza dell’incrocio con via Michele Mercati, era possibile contemplarla in tutta la sua interezza. Sapevo che aveva il nome di un fiore, “Il Girasole”, e sapevo anche che era un edificio che raccoglieva molte storie, a partire dalla sua.

L’architetto e il conte
L’aveva progettata tra il 1949 e il 1951 Luigi Moretti, architetto eclettico, multiforme e sfuggente ad ogni rigido incasellamento. A partire dalla sua anagrafica. Il cognome lo aveva preso dalla madre, il nome dal padre (Luigi Rolland, architetto romano di origine belga, scomparso nel 1921 quando il figlio aveva solo 14 anni). Era giovane ma aveva già partecipato alla realizzazione del Foro Italico e dell’Eur. Dopo queste la sua vena non si era affatto esaurita, anzi, la testa era ancora colma di idee. Fu a causa di una di queste che nel 1945 venne arrestato e rinchiuso nel carcere di San Vittore, con l’accusa di voler mettere in piedi un movimento politico a carattere tecnico. Vi rimase solo un mese (18 maggio -19 giugno 1946) ma in cella aveva fatto in tempo a conoscere il Conte Adolfo Fossataro, nato a New York nel 1905, amministratore delegato della Higher Life Standard National Company. A quell’interlocutore unico aveva aperto le porte dei suoi sogni fino a stregarlo e, nel buio del loculo che li ospitava, le idee del giovane architetto avevano iniziato a fare una luce insperata sul futuro di entrambi.
Dopo la liberazione conte e architetto fondarono la Cofimprese (Compagnia Finanziaria per le Imprese di Costruzione e di Ricostruzione). Società complessa (articolata in tre gruppi principali: amministrativo e legale; ingegneristico e progettuale; fabbricazione e trasporti) ma (tra loro) ruoli semplici: Moretti si occupò di fare progetti, Fossataro di recuperare i fondi. Iniziarono da Milano e, al primo colpo, sfondarono subito: loro, due “novellini”, sbaragliarono la concorrenza con un lavoro da tre miliardi di lire: le case albergo di via Corridoni, via Bassini e via Lazzaretto alle quali seguì un complesso edilizio per uffici e abitazioni che fu poi venduto al Comune. Quando caddero le impalcature che ricoprivano l’ultimo dei tre edifici sorti tra via Rugabella e Corso Italia, fu per i milanesi un autentico colpo di scena.  E quella nuova, insolita, logica e avveniristica costruzione, con un corpo di trenta metri proteso a sbalzo sulla strada, fu subito battezzata “palazzo volante”.
Passati nella Capitale aprirono alcuni cantieri prima di sciogliere il sodalizio. Il Girasole fu il loro canto del cigno. Erano già, di fatto, separati ma il conte aveva in mente di costruirsi una casa a Roma, nella maniera più economica possibile. Per questo il lavoro lo fece eseguire dalla sua società. Approvò e finanziò il progetto, come sempre senza entrare nei dettagli. Moretti, persuaso che il suo ruolo fosse quello di intervenire direttamente nel corso della storia, fece e disfece in continuazione, apportò ininterrottamente migliorie e variazioni, senza avere mai un progetto definitivo. E concepì la casa come un film. Fossataro conosceva ormai la sua feroce insofferenza per le gabbie e lasciò che il suo architetto affrontasse il progetto come una sfida. Sapeva già che l’avrebbe vinta. Ma certamente non si aspettava che quella casa sarebbe stata capace di infiammare l’immaginazione di più di una generazione e che quell’uomo sarebbe diventato la prima vera archistar italiana (arrivando a progettare il “Watergate” di Washington, l’hotel che sarebbe divenuto poi noto anche per l’omonimo scandalo che avrebbe portato le dimissioni del Presidente Nixon).

L’enigma della facciata del Girasole
La strada era in discesa. Moretti, per nulla intimorito dalle multiple pendenze, le trasformò in un valore. Riuscì così a realizzare una vera teatralizzazione dell’edificio, un luogo immaginario, nel quale un complesso stratificarsi di elementi, prelevati dalla storia e dalla memoria, si ritrovò ricomposto in una inusuale e inaspettata unitarietà. Il risultato divenne l’esempio più alto e scenografico dell’architettura della palazzina e ancora oggi si offre a una continua rilettura. Una rappresentazione irripetibile, della quale si avverte l’esistenza di un segreto che può essere in parte svelato, una volta varcata la soglia, solo a silenziosi e attenti spettatori. Ma non basta un’unica chiave. Moretti ha dotato questo edificio di significati specifici e complessi.
La facciata è una vera e propria quinta, un sipario scostato, l’attesa di un appuntamento eternamente rimandato. Quando la osservo dal marciapiede opposto vengo avvolto da un senso di dolore e di freddezza. C’è un taglio profondo fino al cuore dell’edificio, come se un’ascia avesse inferto un colpo su una porta di legno. Moretti ha discostato le sue due parti quel tanto da consentire all’ombra dello squarcio verticale di confluire nel palcoscenico dell’atrio aperto all’interno. E la prospettiva tagliente, questa fenditura carnale della facciata che seziona nel vivo l’intero edificio, è capace di farsi subito rivelatrice nel momento in cui si apre al grande vestibolo sottostante.

Il Palazzo del Girasole | Piero Trellini

Rossellini, Bergman e Totò: tutti insieme appassionatamente
Se li osservo bene fenditura e atrio conversano insieme con toni chiaroscurali, creando ombre intense e misteriose. È lì che Moretti ha sciolto le sottili ambiguità di una poetica squarciata da grandi segreti (il suo nero slegato dal bianco, ottenuto senza farvi ricorso, compare soltanto sotto forma di cavità negativa, sottratta alla silenziosa eloquenza del suo accecante opposto).
L’ingresso è impersonato da un antro, pervaso di archeologismo. È scoglioso, cavernoso, come se alludesse a millenarie erosioni provocate dalle acque. È un’architettura nascente dalla roccia, alla quale manca solo il rumore delle onde. È qui che la magica rampa di scale a sbalzo, piegandosi alle esigenze distributive dell’architettura, sacrifica il suo essere opera d’arte per lasciarsi calpestare. Ed è qui che la vita rifluisce lenta, al punto che la statuaria diligenza delle masse marmoree sembra solo attendere di risvegliarsi al passaggio di sembianze eleganti, di comparse urbane, di cappotti avvitati o cappelli aggraziati. Ed è infatti qui che alcuni di questi hanno ricoperto corpi che, in quegli anni, stavano attraversando il tappeto dell’eternità. Quelli di Roberto Rossellini, di Ingrid Bergman e di Antonio de Curtis, in arte Totò.

Adolfo Fossataro, che occupò l’intero piano attico (l’unico a essere realizzato e rifinito anche internamente da Luigi Moretti in persona, salone triplo, sala da pranzo, sei camere, cucina, tinello, quattro servizi, lavatoio e terrazza panoramica, oggi in vendita a €1.990.000), fu anche produttore cinematografico e volle nel palazzo come suoi condomini il regista del neorealismo insieme al principe della risata, i due mostri sacri di quegli anni, le due facce della realtà italiana, ad assecondare quel chiaroscuro magico creato dalla fantasticheria dell’architetto. In mezzo la diva per eccellenza. E i quattro ospiti dell’immaginazione di Moretti in quegli anni, in un accavallarsi continuo di destini incrociati, oltre a condividere lo stesso stabile, si sarebbero incontrati nei luminosi contesti del cinema: Fossataro avrebbe prodotto il bellissimo “Viaggio in Italia” diretto da Rossellini e interpretato dalla Bergman, (1955), Totò sarebbe stato diretto dallo stesso Rossellini in “Dov’è la libertà” (1952) trovandosi nella pause di lavorazione a discorrere con l’attrice svedese. Ma sarebbe stato su quel set travagliato (Rossellini era spesso assente e intere sequenze furono girate da Monicelli e Fellini) che l’attore napoletano si sarebbe innamorato di Franca Faldini, la compagna con la quale avrebbe diviso gran parte del resto della sua esistenza proprio nella casa del Girasole: “La base della mia vita è la casa – confidò nel 1963 a Oriana Fallaci – per me, è una fortezza, quasi una persona. Quando vi entro la saluto sempre come una persona: «Buonasera, casa»”.

La pianta degli appartamenti di Totò e Rossellini nel Palazzo del Girasole. Disegno di Ruggero Lenci | Fonte ArchiDiAP

Il principe, che viveva già a Roma da tempo (la prima casa in via Tibullo 10, nel 1934, la seconda in viale dei Parioli 41, nel 1936), scelse l’appartamento di dieci stanze al piano nobile della palazzina. Investì un patrimonio per comprarla e per arredarla. Voleva farne la sua reggia privata. E ci riuscì.
Qualunque visitatore ne rimase abbagliato. Quando il 15 marzo 1952 convocò i giornalisti nel suo appartamento per comunicare il fidanzamento ufficiale con Franca, di fronte agli occhi dei cronisti si palesò una sfilata di tre stanze (sala d’ingresso, salone di rappresentanza e sala da pranzo aperte una sull’altra e senza porte di comunicazione) che accarezzava l’andamento curvilineo del muro a sud della palazzina per tutta la lunghezza del piano. Le immense vetrate erano protette da tendaggi in velluto rosso. Lo stile Luigi XV emergeva impetuoso da due consolle veneziane e un orologio in bronzo. Su alcune porte affiorava l’aquila bicipite bronzea, lo stemma nobiliare del padrone di casa. Nessuna traccia di ordinarietà: i termosifoni erano nascosti da plance d’ottone traforato. I più curiosi, sbirciando oltre, rimasero turbati da uno strano vestibolo rivestito completamente di specchi, ritrovandosi all’improvviso riprodotti in cento figure.
Anche se l’appartamento era immenso, gran parte del suo tempo Totò lo passava a letto (dal quale si alzava di regola verso mezzogiorno) in una settecentesca camera in stile veneziano, circondato da due comodini bombati, una grossa stufa elettrica, una macchina da scrivere e l’immancabile apparecchio telefonico verde (il fitto traffico era disimpegnato da un centralino collegato ai sette apparecchi collocati nelle varie stanze). Oltre alla compagna, nell’appartamento vi abitavano il cugino segretario Eduardo Clemente, tre persone di servizio e un cane lupo. Non era necessario ricorrere a lui per difendersi dagli ammiratori: bisognava prima superare lo sbarramento della portineria, del segretario e del personale di servizio. A pochi gradini da Totò anche Rossellini aveva l’abitudine di passare molto tempo sotto le coperte. A letto, infatti, lavorava e riceveva i suoi ospiti.

In un mirabile gioco di omonimie nel film “Caro Diario” Nanni Moretti costeggia in vespa il “Palazzo del Girasole” di Luigi Moretti (il primo a sinistra).

Il repertorio iconico di Luigi Moretti
Moretti creò un contenitore di storie. Era già vivo prima ancora che le esistenze dei suoi inquilini lo venissero ad abitare. Perché dentro ci mise la sua di vita, i suoi ricordi e il suo sapere. Ma anche il suo presente. Oggetti e frammenti sono disposti nel Palazzo del Girasole come in un elenco (veri e propri campioni prelevati dal repertorio iconico della città e sovrapposti dall’architetto nello spazio di un inventario) creando una fluidità architettonica, priva di qualunque riferimento temporale ma (e per questo) colma di richiami (temi piranesiani nella trama compositiva, torsioni e movimenti compressi in omaggio a Bramante, l’inserto di oggetti riconoscibili caro a Duchamp, la materia declinata al pari di Bernini, le componenti antropomorfe legate a Michelangelo, le sgrammaticature care a Borromini e i giochi matematici ispirati a Piero della Francesca, per non citare l’apertura delle acque inscritta nel fronte che rincorre l’eco di antichi esodi).
Ma basta fermarsi un istante in più per accorgersi che agli elementi naturalistici se ne accostano altri antropomorfi e zoomorfi. Ne trovo tre stupefacenti. All’interno del grembo di questa architettura fisica, c’è un corpo scala che insieme all’ascensore assume la morfologia di una mano aperta, lecorbousiana. Mi appare come un segnale di operosità e di riconciliazione contenuto in una costruzione parlante. Moretti fa affacciare le amate camere da letto di Totò, Rossellini e la Bergman oltre che dello stesso Fossataro tutte sul fronte laterale in un andamento a dente di sega, come se le pareti a sbalzo fossero le branchie di un pesce. O i rami ondeggianti di conifere alpine. Entrambi mi suggeriscono il respiro. Quello notturno. In realtà è una soluzione solare – inconsueta, funzionale e geniale – per catturare tutta la luce possibile (come i rami di un abete sono più corti verso il sole e più lunghi verso la base dell’albero). Ed è proprio da questa trovata che la palazzina prende il suo appellativo. Ma c’è altro. Dall’imbotte di una finestra del piano rialzato su via Schiaparelli affiora una gamba epica. Può apparire come un appunto surrealista, in realtà è biografico. È l’eco della frattura che Moretti stesso si procurò alla tibia nel 1943 in un incidente stradale sulla via Flaminia, all’altezza di Prima Porta, a due passi dalla Capitale. Ma qui è impegnata a dimostrare la condizione di sofferenza statica dell’edificio in quel punto e, al contempo, anche ad eseguire misteriosi “esercizi di magia”.
L’edificio che si fa teatro diviene quindi sede di infinite rappresentazioni. Molte immagini dell’Istituto Luce ci mostrano la Bergman o Rossellini intenti a uscire da quell’atrio, magari per portare la figlia Isabella Rossellini a scuola. O il regista romano parlare con l’avvocato Graziadei sotto casa. Ma è divertente immaginarsi la quotidianità spicciola negli incontri tra un Fossataro, un Totò e un Rossellini: da un “Buon giorno Conte” a un “Caro Principe, i miei omaggi”, passando per “Maestro porti i miei saluti alla signora Ingrid”.

Totò nel salone della sua casa di viale Bruno Buozzi a Roma

La drammatica rivelazione
Al civico 64 di Viale Bruno Buozzi Totò avrebbe voluto rimanerci tutta la vita. Ma in Italia l’aria stava cambiando. Era iniziato il “boom”, Roma ospitava le Olimpiadi, veniva eletto Giovanni XXIII, il “Papa buono”, passò la legge Merlin e, per permettere al fisco di controllare distratti o evasori, venne varata la legge Vanoni. Fu proprio quest’ultima che cambiò le sorti della storia tra Totò e la sua casa. Il fisco chiese infatti al principe quattrocento milioni per redditi non dichiarati. Totò venne preso dallo sconforto. Era un uomo dalla generosità immensa: manteneva centinaia di cani e gatti randagi, venti persone del suo personale, oltre ai lustrascarpe di Napoli e agli abitanti del rione Sanità ai quali regalava periodicamente banconote da cinque e diecimila lire, per non parlare dei regali che faceva quasi ogni giorno agli attori che si sposavano, a quelli che avevano temporaneo bisogno, alle maestranze sul set dei film. Sempre con la massima discrezione nel più assoluto anonimato, lontano da riflettori, echi e megafoni. Incontrò casualmente sul treno Nizza-Roma l’onorevole Giulio Andreotti, si fece coraggio e gli confidò le sue pene. Il politico gli consigliò di mediare. Così fece: Totò si accordò con il fisco, nessuno sconto, pagò l’intera somma ma in tre anni con rate bimestrali da trenta milioni luna. Una mossa che gli impose un addio. Quello alla casa del Girasole. Quel taglio profondo fino al cuore dell’edificio diventò così il suo. E la rivelazione si palesò proprio nell’atrio, in uno dei tanti causali incontri. “Conte, sono costretto a vendere la mia casa, ho bisogno urgente di soldi”. Fossataro ne comprese lo strazio. “Gliela ricompro subito io stia tranquillo”.
Moretti, progettò quell’atrio aperto che rubava la luce da una profonda ferita per ospitare un segreto che non era ancora stato svelato. E mi viene da pensare che, pur non potendo saperlo, sembrava destinato a quel momento, la più tragica delle rappresentazioni dell’attore, la più umana dell’imprenditore, nel chiaroscuro dei ruoli invertiti.
Ma i soldi del Conte non bastarono a pagare il debito con lo Stato. Gli consigliarono di andare in Svizzera, si recò così a Lugano ma subito si rese conto che non poteva sfuggire alle tasse in eterno. Se scappava non avrebbe potuto lavorare e se non lavorava non avrebbe potuto risalire la china. Rientrò dunque a Roma e iniziò a girare film senza interruzione. Era malato e stanco ma non poteva perdere nessuna occasione. Accettò qualunque offerta, anche di partecipare in televisione a “Il Musichiere” con Mario Riva. Lasciata l’adorata abitazione si spostò di pochi metri, nella traversa principe di Viale Bruno Buozzi, in una casa altrettanto lussuosa. L’appartamento venne preso in affitto e a nome di Franca Faldini, una mossa che lo rese, agli occhi del fisco, nullatenente e al riparo da eventuali pignoramenti. Faccio pochi passi e mi fermo stavolta di fronte alla palazzina di via dei Monti Parioli. Fu qui che lo contattò un regista a lui lontano. Totò ormai non faceva più complimenti a nessuno e accettò di vederlo. Sarebbe stato la sua fortuna. Se la casa del Girasole causò la sua rovina, generò anche la sua rinascita. Quella casa, insomma, lo condusse da lui.

Pasolini da Totò (1965)
È qui che voglio fermarmi per sostare sul mio personale incrocio di tempio e di spazio. Risale al 1965. È una sera come tante. Lo scrittore e regista Pier Paolo Pasolini sale sulla sua Alfa Romeo parcheggiata in via Carini per andare a prendere Giovanni Davoli, detto Ninetto. Figlio di poverissimi immigrati calabresi è uno dei ragazzi di “gioconda lanuggine” che si è imbattuto nel suo cammino nel corso delle calate negli inferi delle borgate, nei quartieri dormitorio, nelle baraccopoli e nelle bidonville, in una Roma di frontiera torva e diseredata, ma pulsante di energia, “sanguinante di assolute novità”: il vero continente inesplorato. Una città “scomposta, stupenda e misera”, dove nessuno commette peccato né reato. “Tu sapessi che cosa è Roma! – scriveva Pasolini nel 1952 all’amico Giacinto Spagnoletti – Tutta vizio e sole, croste e luce: un popolo invasato dalla gioia di vivere, dall’esibizionismo e dalla sensualità contagiosi, che riempie le periferie. Sono perduto qui in mezzo”.
Ora, ormai, tredici anni dopo, è la sua città. Da quando l’imbianchino Sergio Citti, appena uscito dal riformatorio, è divenuto il suo Virgilio dei bassifondi aprendogli porte segrete, e rendendogli accessibili i ragazzi dai capelli “ferocemente e dolcemente ondulati”. Pasolini restituisce il favore regalando loro il sogno del cinema. Lo fa anche con Ninetto del quale ormai è maestro, padre, compagno. Se lo scrittore sa ormai tutto della realtà delle borgate, un ragazzo come Ninetto non sa nulla dei borghesi. Grazie a Pasolini, nelle cene con gli intellettuali Elsa Morante, Alberto Moravia e Dacia Maraini, scopre normalità ed eccentricità delle quali non sospettava neppure l’esistenza. Non capisce i loro dialoghi e non conosce i loro riti. Quando dopo una partita di pallone Pasolini lo porta a casa di Laura Betti per farlo lavare Ninetto aprendo la porta del bagno scopre la vasca, mai vista prima di quel momento.
Quella sera del 1965 Pasolini arriva a Borgata Prenestina, la casa dove abita Ninetto, una baracca composta da una sola stanza con il tetto di lamiera, che divide con i genitori e i tre fratelli. Il regista dopo avergli affidato la parte di un pastorello ne “Il Vangelo secondo Matteo”, vuole lanciarlo come protagonista del suo nuovo film. Si chiamerà “Uccellacci e Uccellini” e Ninetto dovrà recitare a fianco di Totò. “Ma chi, Totò quello del cinema?”, trasecola Ninetto. Ed esplode in una risata. «Sarai anche pagato». “Pagato? E quanto?”. “Due o tre milioni”. Cifre incredibili per un ragazzo di borgata. “Vestiti bene, ti porto a conoscerlo a casa sua, ai Parioli”. Ninetto sceglie un completo jeans, pantaloni e giubbetto, lo scrittore è in blu, incravattato. “A Pierpà, per me uscire da questa borgata e andare ai Parioli è un viaggio”. Lo è davvero. In quel lungo percorso notturno “orizzontale” c’è, in qualche modo, l’ascesa “verticale” e “sociale” di un uomo che, attraversando il centro della città, parte dalla periferia più nera per approdare al quartiere più lussuoso della Capitale.
Il viaggio termina all’altezza del civico 4 di via dei Monti Parioli. Davanti al palazzo dove abita il principe De Curtis, Ninetto rimane a bocca spalancata: “Che portone enorme! Da solo è grande quanto tutta casa mia!”. Una volta dentro, Pasolini spinge il bottone di un gabbiotto. “Che cos’è?”, domanda incuriosito Ninetto. “L’ascensore”, risponde il maestro. Le case di borgata sono tutte a un piano e Ninetto non ne aveva mai visto uno. Sul pianerottolo Pasolini si aggiusta la cravatta, Ninetto i capelli. Suonano alla porta.
Viene ad aprire Totò in persona con una giacca da camera rosso porpora. Ninetto scoppia a ridere. Pasolini lo bacchetta. Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi de Curtis di Bisanzio, in arte Totò, accarezza l’aria magnanimo e sussurra “Lascia stare, è un ragazzo”. Ninetto rimane abbagliato dallo spazio e dallo sfarzo. Marmi, specchi, tessuti, superfici smisurate, finestre immense.
La cena è servita in una sala da pranzo d’ispirazione rinascimentale. Lampadario di Murano, pavimento in maiolica e soffitto decorato con festoni di fiori, alla napoletana. Sul tavolo sfila una parata di cibarie e stoviglie. Totò si accomoda come sempre sul lato lungo, mai a capotavola. Gli altri tre commensali (oltre ai due ospiti, la compagna e attrice Franca Faldini, di vent’anni più giovane, motivo per cui l’ha fintamente sposata in Svizzera nel 1954, un anno prima che la ragazza si ritirasse dalla scene) siedono comodamente uno per lato.
Terminata la cena, Franca Faldini fa gli onori di casa invitando gli ospiti a prendere il caffè nel salottino. Totò e Pasolini siedono su un divano di cuoio marrone scuro con spalliera trapuntata. Ninetto sprofonda impacciato su una poltrona. Osserva i suoi interlocutori in posa sotto una marina veneziana del Settecento e cerca di copiarne gli atteggiamenti Sul caminetto intagliato in legno, sono collocate due antichissime lampade a petrolio appartenenti alla famiglia De Curtis; sopra spicca la pergamena con lo stemma di famiglia. Nella stessa stanza, in basse biblioteche sotto le finestre, sono custoditi tutti i volumi di araldica del principe. Arriva il carrello con un servizio inglese da tè, in argento, dell’Ottocento. Si parla: soggetto, ruoli, riprese, qualche battuta.
Pasolini ha scelto Totò come protagonista del film perché ritiene che la sua maschera rappresenti in modo esemplare i due caratteri tipici dei personaggi fiabeschi: la stravaganza e l’umanità. Parlandoci ha la conferma che sia un uomo buono, di grande modestia e di “dolce cera”. Totò ascolta Pasolini, lo trova intelligente e pieno di fantasia, con un mondo interiore diverso da quello al quale fino ad ora è stato abituato.
La serata passa via piacevole. Poi, saluti e baci. Chiusa la porta, Totò attraversa la casa fino allo sgabuzzino, prende un barattolo di DDT e corre a spruzzarlo sulla poltrona di Ninetto (sarà Franca a raccontare l’aneddoto a Davoli, che anziché offendersi l’ascolterà divertito, durante le riprese, quando ormai tra Totò e il giovane attore ci sarà molto affetto). Il film porterà Totò a vincere la menzione d’onore al Festival di Cannes del 1966, l’unico suo riconoscimento internazionale. L’anno seguente, il 15 aprile 1967, esalerà l’ultimo respiro. Il parroco, avendo appreso che la Faldini fosse soltanto una “vedova biblica”, pretese che uscisse dalla porta dell’appartamento che avevano condiviso per sette dei loro quindici anni insieme e attendesse sul pianerottolo.

Quell’incontro tra miseria e nobiltà, tra uno stupefatto borgataro e un principe disincantato, filtrato dalla mano di un intellettuale abusivamente borghese è la fotografia che voglio conservare. Il fermo immagine che per me vale un’epoca. Non è per gli sfilacciati grovigli di familiarità che mi tengono in qualche modo legato ad esso (l’aver vissuto a due passi dall’edificio del Girasole, l’essere entrato all’interno di quegli appartamenti, aver frequentato le medie nella stessa scuola dove andò Moretti, l’aver avuto in classe al liceo il nipote di Adolfo Fossataro o il figlio del confidente di Pasolini – Giacinto Spagnoletti – come professore alla Sapienza, o ancora il mio nonno paterno incrociato con i destini di Moretti all’Immobiliare e quello materno costruttore di due palazzine a viale Buozzi, a pochi passi dal Girasole, in una delle quali si conobbero i miei genitori): Totò investì tutto e perse tutto per abitare dentro le mura di quel Palazzo intriso di misteri solari, concepito in una cella umida e sbocciato nel viale più lucente dei Parioli. Fu a causa di quel palazzo che fu costretto ad accettare la visita di Pasolini. E in quell’incontro si concentra uno spaccato sociale che ha avuto il suo tempo e il suo spazio prima di dissolversi per sempre. Roma non avrebbe avuto più quella miseria ma avrebbe perso anche la sua aristocrazia. E arbitri lucidi e spudorati come Pasolini non sarebbero più nati. I due mondi si sarebbero avvicinati, rincorsi, scambiati i ruoli, i primi perdendo lo stupore della meraviglia, i secondi divorati da un’ignoranza mai prima nemmeno sfiorata. E quella Roma pariolina sarebbe divenuta, come aveva previsto Pasolini in quegli anni, “la borghesia più ignorante d’Europa”.

Un fermo immagine di storia. Una delle tante che possiamo aspettarci soffermandoci sul ciglio di un incrocio nell’attesa che escano dalle mura di un palazzo.

Piero Trellini

Scrive per la Repubblica, La Stampa, Il Sole 24 Ore e Domani. Ha lavorato per Il Messaggero, il Manifesto, Sky e altri. Collabora con Nuovi Argomenti e Art e Dossier. Scrive serie televisive. Ha pubblicato “La partita” (Mondadori), “Danteide” (Bompiani), “L’Affaire” (Bompiani) e “La partita. Le immagini di Italia-Brasile” (Mondadori).
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