Il bello della “March Madness”

Tutti d’accordo, si tifa per Cenerentola. È il bello della “March Madness”, è il bello del torneo di basket universitario a eliminazione diretta che a marzo paralizza uffici, redazioni e salotti di tutta America. Da 64 squadre a 32, da 32 a 16, da 16 a 8, da 8 a 4 e poi lo spettacolo delle Final Four, semifinali e finali, in questo weekend lungo (sabato e lunedì notte, da Atlanta, Georgia – diretta sia su SKY Sport che su ESPN America) che incorona la squadra campione NCAA.

Con la regola, spietata, del dentro-o-fuori, a ogni turno del torneo NCAA sono ovviamente all’ordine del giorno sorprese, clamorose eliminazioni, schianti improvvisi e altrettanto improvvisi, quanto effimeri, momenti di celebrità per giocatori, squadre e scuole fino a quel momento sconosciuti. Quest’anno è toccato prima a Florida Gulf Coast, la prima testa di serie n°15 di sempre capace di raggiungere le migliori sedici del lotto, e poi a Wichita State, che da sfavorita ha affrontato già il primo turno (testa di serie n°9 contro la n°8, Pittsburgh), lo ha vinto, e poi ha eliminato una delle quattro teste di serie n°1 del torneo (Gonzaga), nella strada per guadagnarsi l’accesso addirittura alle Final Four.

Il nomignolo dei ragazzi di Wichita State è “Shockers” e la loro presenza ad Atlanta – al fianco di college blasonati come Louisville, Michigan e Syracuse – è in effetti uno shock non da poco, sufficiente a fargli indossare quei panni di “Cinderella Team” che solitamente garantiscono la simpatia e il supporto di tutto quel pubblico d’America (la stagrande maggioranza) che si può definire “generalista”, non direttamente coinvolto da tifo, appartenenze o legami di vario tipo con qualche college in particolare.

Primo colpo di scena: non quest’anno.

Ho come idea che quest’anno sarà un’altra squadra – e un’altra storia – a rubare il palcoscenico all’impresa degli Shockers. Ha un nome e un cognome, Kevin Ware, e se vi è capitato di vedere le immagini che documentano il tremendo infortunio che ha colpito il giocatore di Louisville nel quarto di finale contro Duke sapete di cosa sto parlando. Immagini orrende – il ragazzo salta, atterra e si spacca una gamba, con la fuoriuscita della tibia catturata anche dagli obiettivi dei fotografi. Immagini così crude che, assolto il dovere di cronaca, la stessa TV americana si è rifiutata di ritrasmettere, puntando le proprie telecamere sui visi in lacrime dei suoi compagni. “Stavo per vomitare”, la reazione dell’allenatore di Louisville, il leggendario Rick Pitino.

Il sogno di Ware di disputare le Final Four e magari di vincere il titolo – in quella Atlanta dove tra l’altro è cresciuto – è finito in quel momento, lo stesso però nel quale è iniziata una popolarità mai neppure sfiorata prima. La foto del ragazzo a terra dolorante – con le mani dei compagni che si allungano per consolarlo e l’hashtag #PrayForWare – ha fatto il giro del web, accompagnata dalle sue parole (“Win this game”, ripetute dodici volte in quei pochi, drammatici momenti, ha assicurato coach Pitino). Il giorno dopo, a intervento chirurgico concluso, sono arrivate le telecamere di ESPN per un’intervista post-operazione e quelle del David Letterman Show, che a lui ha affidato la celebre Top 10.

Spiace per Wichita State, ma questo giro è impossibile non tifare per Lousville e per Ware, la “storia” per eccellenza di queste Final Four.

Secondo colpo di scena: ce n’è una addirittura migliore.

O almeno, che a me piace di più.

Non cambia la squadra, sempre Louisville, cambiano nome e cognome, però: Russ Smith. Le sue lacrime sono state le prime a essere inquadrate dalla regia televisiva al momento dell’infortunio di Ware. Un pianto quasi disperato, incredulo. Non il primo per lui, purtroppo.

Bisogna tornare indietro di qualche giorno, un paio di settimane. Giovedì 14 marzo.

Louisville esordisce al Madison Square Garden di New York per la prima partita del torneo della Big East conference, il “girone” a cui appartiene (chi vince il torneo di conference si assicura, automaticamente, l’accesso al torneo NCAA a 64 squadre). Russ Smith gioca nel Kentucky ma New York la conosce bene – ci è nato, ci è cresciuto, ci è andato al liceo. Non un liceo qualsiasi, ma la Archbishop Molloy High School, un luogo “sacro” se si ama la pallacanestro. Lì ha allenato, per 55 anni (sì, cinquantacinque!) Jack Curran. Non solo il basket – vincendo 5 titoli cittadini e quasi mille partite – ma anche il baseball, dove i titoli salgono a 17 e le vittorie ottenute sfondano il muro delle 1.700. Una leggenda dello sport scolastico americano. Una persona di altri tempi, un gentiluomo, un maestro di 82 anni che ha “battezzato” vari giocatori NBA (da Kenny Smith a Kenny Anderson). È per lui la prima telefonata di Russ Smith una volta arrivato in città, giovedì mattina. Chiama il liceo, chiede di parlare col suo allenatore. Non può. Gli comunicano la notizia. Jack Curran è morto, in mattinata. La sera Russ Smith deve scendere in campo. Lo fa, ovviamente, col pensiero al suo coach: 28 punti e vittoria. Il giorno dopo c’è la semifinale, quello dopo ancora la finalissima. Tre gare, tre vittorie. Smith è un uomo in missione, i suoi Cardinals sono campioni della Big East ed entrano al torneo NCAA con una delle quattro teste di serie n°1 (e come primi assoluti, nel ranking). Proprio come il loro nuovo leader, non si fermano più: battono facilmente North Carolina AT&T al primo turno e Colorado State al secondo, poi piegano Oregon e quindi Duke (nella partita dell’infortunio di Ware), qualificandosi così alle Final Four di questo fine settimana. Russ Smith segna 23 punti la prima gara, poi 27, 31 e ancora 23: è un giocatore in trance agonistica, è un ragazzo spinto da qualcosa di più che da una semplice motivazione sportiva.

È lui il mio personaggio preferito di questo weekend tutto da gustare, non lo nascondo.

Perché è newyorchese, prima di tutto, e i giocatori newyorchesi hanno un certo modo di attaccare la partita e di attaccare il canestro che gli altri non hanno. Anche se sono alti solo 180 centimetri e si portano addosso a malapena 70 chili di muscoli, come Smith.

Mi piace perché – con quelle dimensioni fisiche – sembra ancora un bambinetto, se lo si vede in campo in mezzo ai giganti. Un bambino come quello che attraversa una strada del Bronx in una scena di “Scoprendo Forrester”, dove Forrester è l’insegnante Sean Connery diretto da Gus Van Sant. Anzi, Russ Smith è quel bambino, che a 8 anni fa la comparsa sul set del film in cui il padre (Big Russ, giocatore pure lui, anche professionista in Tunisia) lavora come “basketball coach” con l’attore Jamal Wallace (il cui personaggio, Rob Brown, è lo studente col pallone da pallacanestro sempre sotto braccio). Big Russ insegna il gioco a Wallace esattamente come lo insegna da anni al piccolo Russ, che lo segue sui playground cittadini: il padre avvicina dei ragazzi di 8-9 anni, gli rifila un paio di dollari e gli chiede la cortesia di sfidare il suo figlioletto, che di anni ne ha solo 6. Poi si diverte a vederli umiliati, convincendosi sempre di più che il figlio ha talento.

Ne ha, infatti, e come ogni newyorchese baciato da questo dono non ha ancora incontrato un tiro che non gli piaccia. Per questo Rick Pitino, disperato, al suo primo anno a Louisville lo confina in panchina, tanto da spingerlo quasi a mollare. Aveva già fatto le valigie Russ Smith, quel pomeriggio del 26 gennaio 2011, pronto a lasciare il campus e tornare a New York, senza aspettare neppure la partita della sera – tanto non avrebbe messo piede in campo. Lo ferma sulla porta il suo compagno di stanza al college. Quella sera Pitino miracolosamente gli dà qualche minuto, che lui usa per prendersi sette tiri e segnarne uno solo – abbastanza perché gli torni un po’ di fiducia.

Quella fiducia che Jack Curran gli aveva sempre dato (più di 29 punti di media nel suo ultimo anno al liceo) e quella fiducia che da allora non gli è più mancata.

Né a lui, né a BasedKing – alter ego o personaggio immaginario, fate voi – che Smith stesso si è creato, con cui comunica senza freni sui social network (Pitino gli ha negato Twitter, su Instagram è ancora attivo). BasedKing ha un mantra, riassunto dal suo hashtag: #YouWillGetLucky, la fortuna arriverà.

Forse è arrivata, per davvero.

Seguiamolo in televisione questo fine settimana e avremo la risposta.

Mauro Bevacqua

Nato a Milano, nel 1973, fa il giornalista, dirige il mensile Rivista Ufficiale NBA e guarda con interesse al mondo (sportivo, americano, ma non solo).