Otto miglia

Le “otto miglia” più famose d’America sono quelle rese celebri da Eminem, a Detroit. Ma qui siamo in North Carolina, mica nel Michigan, e la stessa distanza è quella che separa Chapel Hill (cittadina con meno di 60.000 anime) da Durham (poco più di 200.000). Le due cittadine sono famose per ospitare due università, North Carolina e Duke. Le due università sono famose per mettere in campo due gran belle squadre di basket, i North Carolina Tar Heels e i Duke Blue Devils. Le due squadre sono famose per il colore delle loro maglie – celesti le prime, blu le seconde – e per una rivalità sportiva che in America trova pari (forse) solo in quella tra Red Sox e Yankees, nel baseball.

“Eight miles and two shades of blue”, è la frase che racchiude tutto: “Otto miglia e due tonalità di blu”, quello più chiaro dei Tar Heels e quello più scuro dei Blue Devils. E siccome la rivalità è tremenda, intensa, quasi maniacale, restare semplici spettatori disinteressati è quasi impossibile (oltre che molto, molto meno divertente). Per cui non ne faccio mistero: il mio azzurro preferito è quello più chiaro – e non sono il solo ad aver fatto questo scelta se, come vi direbbero a Chapel Hill, “the sky’s blue because God is a Carolina fan”. Non è stata tanto la preferenza dell’Altissimo a farmi scegliere i Tar Heels quanto le prime partite di basket universitario trasmesse in TV in Italia nei primi anni ’80. Sugli schermi ci finivano più o meno sempre le solite squadre, le migliori di quel periodo – c’erano Syracuse, Villanova, Georgetown, per dire – ma sono state proprio quelle divise tutte celesti a conquistare il mio cuore, ormai quasi trent’anni fa.

L’odio per Duke, quello è arrivato dopo. Forte, viscerale, irrazionale come tutti gli odi. Ma anche naturale, perché in questi casi se scegli di stare da una parte, l’altra devi per forza detestarla. E mica è difficile. Perché le due scuole – e le due squadre – sembrano, anzi, sono agli antipodi.

L’Università di North Carolina (UNC) ha aperto le sue porte nel 1795. Ricordo ancora di aver scattato una foto alla targa che orgogliosamente ricorda un primato valido per tutti gli Stati Uniti: “First state university to open its doors”. La UNC infatti è statale mentre Duke è privata e piena dei figli dei rampolli della East Coast, pronti a sborsare fior di quattrini perché i loro primogeniti trascorrano quattro idilliaci anni sotto le volte ad arco di un campus tutto rigorosamente costruito in stile gotico. Mentre la nobiltà americana si forma nei college della Ivy League, a Duke ci arrivano gli eredi dei nuovi arricchiti, parvenu alla ricerca di uno status sociale.

Lo stesso vale anche nella pallacanestro, anche se i tifosi dei Blue Devils odiano sentirselo rinfacciare. Perché oggi nessuno può negare che Duke sia simbolo di eccellenza nel mondo del college basket (durante la vostra lettura, pronunciate la parola “eccellenza” come Fonzie pronunciava le parole “ho” “sbagliato” in Happy Days). Un’eccellenza che va avanti da un ventennio, da quando cioè i ragazzi allenati da coach K (l’allenatore è universalmente conosciuto così, perché provateci voi a pronunciare Krzyzewski) sono stabilmente nella élite della pallacanestro universitaria, come testimoniano i 4 titoli NCAA vinti dal 1991 ai giorni nostri (sempre uno in meno di quelli in bacheca a Chapel Hill). Da quando c’è lui – il figlio di emigrati polacchi che siede pure sulla panchina della Nazionale USA alle Olimpiadi – il bilancio del “derby” contro North Carolina vede perfino leggermente avanti quelli di Durham (37 vittorie per i Blue Devils, 36 per i Tar Heels).

Prima era tutta un’altra storia. Basta dare un’occhiata ai numeri totali della rivalità (i parvenu spesso si dimenticano che conta anche la storia, non solo il presente) per scoprire che il bilancio totale parla di 131 vittorie per Carolina contro le sole 102 di Duke. Vogliamo fare a gara elencando i grandi giocatori prodotti dalle due università, allora? Non scherziamo, non si comincia nemmeno. Vi dice niente il nome di Michael Jordan? Il più grande giocatore di tutti i tempi è stato un Tar Heel e con lui si è vinto il titolo nazionale nel 1982. Non è invece facile trovare il più forte di sempre di quegli altri: si potrebbe azzardare Grant Hill, signor giocatore ancora oggi nella NBA, con i Phoenix Suns, ma forse i tifosi dei Blue Devils avanzerebbero la candidatura di Christian Laettner, idolo assoluto ai tempi del college ma poi passato sostanzialmente alla storia per essere la risposta al quiz “Chi è l’intruso nel Dream Team USA delle Olimpiadi di Barcellona ’92?”. Sì, perché nella più grande squadra di basket mai assemblata – con Michael Jordan, Magic Johnson e Larry Bird – si era scelto di inserire anche un collegiale e il prestigio anche accademico di Duke (insieme a un colore d’epidermide nettamente più chiaro) finì per far preferire il bel Chris a un certo Shaquille O’Neal… (se vi è capitato di leggere il romanzo d’esordio di Curtis Sittenfeld, Prep, ecco, quelle pagine sono piene di tanti piccoli Laettner).

Da Carolina sono usciti giocatori come James Worthy (super campione dei Lakers di Magic Johnson e Kareem Abdul-Jabbar) e Vince Carter (forse il miglior schiacciatore di sempre), Bobby Jones e Bob McAdoo e menti del gioco come Dean Smith (a cui è da anni intitolato il palazzo dove giocano i Tar Heels, nonostante lui sia tuttora in vita), Doug Moe, Billy Cunningham e George Karl. Certo, ci sono attualmente ben 16 giocatori provenienti da Duke tra i roster delle 30 squadre NBA, ma la lista all-time non ha lontanamente il valore, né il fascino o l’appeal, di quella proposta dai rivali.

Rivali che torneranno a sfidarsi nella gara di ritorno dei due classici appuntamenti stagionali, che in Italia sarà trasmessa in diretta all’una nella notte tra sabato e domenica da SKY Sport 2. Nel corso degli anni le sfide tra North Carolina e Duke hanno creato veri e propri “instant classic”, l’ultimo lo scorso 8 febbraio quando i Blue Devils – sotto di 10 punti a 102 secondi dalla fine – ammutolirono i 21.750 del Dean Smith Center espugnando il campo dei Tar Heels con un canestro da tre sulla sirena finale firmato dal fenomenale Austin Rivers (destinato alla NBA già a fine anno).

Sabato notte si replica, e il fatto che si giochi sul parquet di Duke non è particolare da poco. All’interno del Cameron Indoor Stadium – una piccola bomboniera tutta legno&ottoni, il singolo posto più bello dove ho avuto la fortuna di assistere a un evento sportivo – si respira infatti una delle migliori atmosfere che lo sport può regalare, grazie alla rumorosa presenza e al tifo incessante dei “Cameron Crazies”, nome di battaglia dei tifosi di Duke, titolari di una delle “student section” più temute d’America. Per loro, prima ancora che per il resto del Paese, Duke-North Carolina è la partita dell’anno, per assistere alla quale questi figli-di-miliardari-futuri-dirigenti-d’azienda non esitano a trascorrere settimane e settimane nella tendopoli da loro creata all’interno del campus universitario (subito ribattezzata Krzyzewskiville). Con la temperatura spesso e volentieri in picchiata sotto lo zero, la loro presenza – giorno e notte – all’interno delle tende è, se si vuole, la degenerazione del nostro concetto di “mettersi in fila al botteghino”. Per battere la concorrenza, qualcuno ha iniziato a mettersi in fila sempre prima, da ore prima si è passati a giorni prima (e qui sono comparse le prime tende), poi settimane e oggi – rigorosamente organizzati in gruppi e turni, perché nel frattempo c’è da frequentare le lezioni e sostenere gli esami: gli studenti di Duke trascorrono anche più di un mese accampati a Krzyzewskiville, in attesa di ricevere il biglietto per la partita. Fosse solo per questo motivo, battere Duke e vederli andare a casa delusi sarà ancora più bello.

Mauro Bevacqua

Nato a Milano, nel 1973, fa il giornalista, dirige il mensile Rivista Ufficiale NBA e guarda con interesse al mondo (sportivo, americano, ma non solo).