Purity: una recensione

“Io leggo il giornale micetta. È il gruppo fondato da quello stupratore.
No, lo vedi? Quella è Wikileaks. Non sai niente del Project.
Vivi sulle montagne e non sai niente” (pg. 82)

Purity, l’ultimo romanzo di Jonathan Franzen è un libro molto bello. Bello e scritto (e tradotto) benissimo. Forse un po’ lunghetto (cento pagine in meno sarebbe stato perfetto), forse un po’ troppo americano, con quella solita maniera che hanno gli americani di semplificare e ridurre a canone ogni cosa (per esempio in questo libro la Germania Est prima della caduta del Muro) ma comunque avvolgente, dominato – come i precedenti – dall’enorme talento dello scrittore nell’esplorare le relazioni, i conflitti e la solitudine delle persone. Una scrittura intuitiva che ce le rende vere, vicine e plausibili.

“Quando sto davanti al computer
sono viva solo a metà” (pg 232)

Purity ha un vistoso punto di debolezza: contiene – a forza e in modo molto innaturale, come un ordigno nucleare calato nel cassone di un vecchio furgoncino – il punto di vista di Franzen sulla società digitale, sui suoi limiti, veri o presunti, sul ruolo che Internet ed i social network hanno nella graduale degenerazione del nostro ambiente sociale. Nulla di nuovo e nulla di particolarmente originale né di troppo contestabile: il pessimismo digitale di Franzen è stato molto volte registrato in questi anni in interviste e prese di posizione pubbliche dello scrittore. Si tratta di convincimenti legittimi, spesso espressi con grande sicurezza e tono assertivo, ma quasi mai illuminati da una qualche intuizione originale, da un giudizio in grado di superare il motteggio o lo slogan moralista tante volte ascoltato.

Purity è un romanzo nel quale le relazioni digitali hanno un ruolo dominante: contiene al suo interno e in profondità i temi della riservatezza, dell’informazione e della memoria sul web, del cratere che ormai separa la vita connessa di quasi tutti da forme di rifiuto digitale che pure esistono e che assumono oggi, inevitabilmente, valenze controrivoluzionarie. È insomma un romanzo contemporaneo a tutti gli effetti e lo è in maniera quasi sempre naturale, a testimoniare – se non altro – che quando Franzen scrive il suo talento narrativo supera e travolge tutto, per restituirci il ritratto esatto della nostra società. In questo modo la trama del libro regge l’impatto, perfino quando sceglie di basarsi sulla figura di Andreas Wolf, una sorta di replica grottesca di Julian Assange (al quale Franzen nella finzione del romanzo non risparmia multipli insulti personali chiamandolo per nome e cognome), figura ambigua che domina gran parte della narrazione. E oltre a questo, qua e là nel testo, come spinto da piccoli pruriti allergici, Franzen inserisce le pillole del suo credo antidigitale. Si tratta di piccole frasi, quasi sempre espulse dal testo, accenni millenaristici che tanto piacciono al romanziere e che lui utilizza da tempo nei suoi discorsi pubblici eppure totalmente fuori contesto dentro il meccanismo svizzero del romanzo.

“Julian Assange è così cieco e sordo
alle basilari funzioni sociali
che mangia con le mani” (pg 559)

È forse un piccolo peccato di superbia ed ingenuità. Accade di frequente quando il mondo riconosce in noi talenti che quasi nessun altro possiede. Il grande romanziere (ma vale per i musicisti, gli attori e gli intellettuali in genere) non resiste alla tentazione di infiorare qua e là la sua opera con la normalità ritrita del suo pensiero quotidiano sulla vita, l’universo e tutto il resto. Quando questo avviene con particolare frequenza, come accade in Purity, quando il Jonathan scrittore viene sostituito dal Jonathan uomo della strada, a patirne le conseguenze è l’integrità del romanzo, la sua verosimiglianza, la sua aspirazione ad essere un oggetto perfetto. Purity lo è quasi sempre, per la verità, tranne quando, di tanto in tanto, il lettore percepisce lo scarto, esce per un istante dalla storia e finisce a capofitto per alcune righe dentro la pubblicità dei banali luoghi comuni di Franzen sul digitale. Punti di vista rispettabili, per carità, ma idonei solo a perturbare la storia e a gonfiare le vele del marketing. Non a caso gran parte delle recensioni di Purity si occupano con toni pensosi ed usuali dei punti di vista dell’autore sull’universo digitale, come se il romanzo fosse semplicemente un grimaldello per parlare d’altro. Come se ciò che Franzen pensa dell’universo digitale sia la spina dorsale del suo lavoro editoriale.

Non è così: Purity è un bel libro sulle relazioni personali, sulle famiglie esplose e ricongiunte, sui sentimenti formidabili poi dimenticati. Poi, qua e là, è anche il modesto spot alle opinioni personali di Franzen su quanto Internet ci renda stupidi. Da una parte la grandezza letteraria dell’autore de Le Correzioni, dall’altro l’assai meno convincente ostentazione dei suoi umanissimi punti di vista su cosa succeda su Internet e perché. Riuscire a tenerli un po’ più distanti sarebbe un’altra maniera per gestire al meglio il proprio talento.

Massimo Mantellini

Massimo Mantellini ha un blog molto seguito dal 2002, Manteblog. Vive a Forlì. Il suo ultimo libro è "Dieci splendidi oggetti morti", Einaudi, 2020