Il guardiano dello zoo

Beppe Severgnini termina con questa metafora ispirata il suo pezzo sul Corriere della Sera, l’ennesimo al riguardo della scomparsa dei commenti sui siti web editoriali, un nuovo genere letterario nel quale anche qui al Post sono diventati specialisti:

Qualcuno dirà: d’accordo. Ma, togliendo la sezione commenti, crudeltà, volgarità e insulti si trasferiscono sui social (Facebook, YouTube, Twitter etc). È vero, purtroppo. Ma almeno non è più un problema dei giornali, che di problemi ne hanno abbastanza. Siamo giornalisti, più o meno bravi; non guardiani di uno zoo.

Non mi interessa oggi riaffermare il mio millimetrico punto di vista sulla presenza o meno dei commenti sui siti di news, un punto di vista, tra l’altro, sul quale non ho grandissime certezze: mi serve questa frase di Severgnini, in particolare il finale, per dire due cose che penso sul futuro del giornalismo nel mondo digitale. E per dire, con la stessa cruda assertività di Severgnini, che è vero l’esatto contrario: il mestiere del giornalista, già oggi ma sempre di più in futuro, significherà esattamente quello: fare i guardiani dello zoo.

Detto in termini meno fastidiosi: se in passato il mestiere del giornalista era spesso una specie di esplorazione del mondo fuori, il racconto dell’esistente per un pubblico che ignorava totalmente l’argomento, una professione che aveva relazioni strettissime con la letteratura, con la visione del mondo, la filosofia ma anche, inevitabilmente, grandi contiguità con il potere, oggi il 99% di quello che fa il giornalista, si riduce al lavoro di filtro e selezione di quello che il mondo ha già detto. Non c’è alcun bisogno di uscire fuori per farsi raccontare i fatti, perché i fatti sono già stati raccontati da qualcun altro nel momento stesso in cui accadono e sono in rete, da qualche parte, in un formato digitale.

Fino a ieri buona parte delle bestie dello zoo potevano essere ignorate (ed il racconto del mondo coincideva sovente con quello delle bestie maggiormente feroci) oggi qualsiasi animaletto, fuori o dentro la sua gabbia, esprime punti di vista senza autorizzazione aumentando di molto l’entropia generale percepita. Il risultato di tutto questo sembra essere una generale perdita di punti di riferimento per una categoria professionale che ragiona con i canoni del mondo precedente e che ama distinguere la propria voce autorevole dal fastidioso chiacchiericcio generale.

È dentro questo caos distribuito che andrebbe invece individuata la nuova funzione giornalistica: un lavoro che non è intellettualmente meno importante di quello precedente ma che, semplicemente, si occupa d’altro. O meglio, che si occupa delle medesime cose di prima ma dentro contesti differenti. Il punto di vista dello zoo (l’espressione di Severgnini è sfortunatissima perché anche i giornalisti non sfuggono alla mediocrità del mondo esattamente come tutti noi) spesso produce comunicazioni irrilevanti ma nel lavoro di filtro giornalistico non potrà non essere compreso. Esattamente come il bravo cronista di ieri entrava dentro la manifestazione di piazza per meglio comprendere umori e punti di vista e poi raccontarceli, oggi sporcarsi le mani significa vivere la rete come ambito di interpretazione sociale. Perché le cose del mondo succedono spessissimo da quelle parti.

Diversamente, se così non sarà, se questo cambio di visuale non sarà accettato, il destino della professione giornalistica è il destino già segnato di un progressivo evidente allontanamento dalla comprensione del mondo. Che è poi quello che spessissimo vediamo rappresentato nei giornali italiani.

È come se ad una professione che negli ultimi cent’anni si è elevata dalla strada verso una sorta di svagata aristocrazia da inner circle, Internet chiedesse oggi, improvvisamente, di inventarsi una nuova umiltà, di mettere le mani e le teste dentro un enorme catino fetido dal quale estrarre il senso e le perle che pure lì dentro esistono. Filtrare il mondo per i lettori è da sempre il ruolo alto e fondamentale del giornalista. E non è che il mondo nel frattempo sia cambiato e sia diventato peggiore (come racconta una retorica antidigitale anch’essa molto frequentata soprattutto da noi), c’è solo da considerare un nuovo enorme rumore di fondo che unisce tutte le bestie dello zoo.

Il risultato è un lavoro di fatto nuovo, eccitante in una maniera differente, sempre a un link di distanza dalla notizia importante, che rimarrà rilevante per tutti noi lettori e che anzi lo sarà sempre di più. Perché estrarre il senso da così tante voci avvicinerà il cronista alla verità molto di più di quanto non sia mai accaduto in passato. Lo zoo è diventato gigantesco: farne il guardiano non sarà per niente male.

Massimo Mantellini

Massimo Mantellini ha un blog molto seguito dal 2002, Manteblog. Vive a Forlì. Il suo ultimo libro è "Dieci splendidi oggetti morti", Einaudi, 2020