Io, Bianconi e i picciriddi

Bianconi ha l’età mia,  cioè o ne fa o ne ha già fatti quaranta.
L’età c’entra col fatto che più che per il concerto (i Baustelle, dopo che a registrare le canzoni ci mettono la cura che ci mettono, tendono a rifarti live le canzoni per come sono) ero là per vedere che gente c’era.
Anzi, veramente ero preoccupato di sapere già che gente ci sarebbe stata, perché mi aspettavo di trovarci tanti adolescenti.

Avere vicino degli adolescenti è una tortura: non direi le punture delle zanzare, e manco il fastidio delle mosche, ma la mistura di raccapriccio e di terrore che incutono i pappapani con le ali quando ti planano scomposti a un millimetro dalla faccia.
E infatti di adolescenti ce n’erano a stormi, a voglia quanti ce n’erano, così tanti che a un certo punto uno per forza si doveva domandare: ma che ci fanno qua, questi?
Perché se uno ci pensa, i Baustelle chi sono?
Sono una band di quarantenni, che si rifà al mondo musicale melodico dei ’60/’70 italiani e rifinisce le canzoni con arrangiamenti orchestrali, code, temi che si inseguono per tutto l’album a mo’ di sinfonia, infittiti da una serie di rimandi, citazioni, riferimenti a musica e musicisti di epoche più o meno lontane.
Bianconi, poi, è una saldatura umana, l’anello di congiunzione tra Fabrizio De André e Giovanni Lindo Ferretti: la sintesi hegeliana che la mia generazione attendeva da decenni, il messia che i nati nei ’70 – in bilico tra due nulla di densità differenti – attendevano per ritrovare una collocazione nel cosmo. O in alternativa, almeno, farsi un sano pianto liberatorio.

E invece chi sono gli adolescenti?
Creature inumane, al massimo qualche punto di contatto col mondo animale. Insetti, roba da entomologi: carapaci ripieni di quello stesso liquido purulento – della consistenza a metà tra la crema chantilly e la pasta dentifricia – che a ogni maldestra spremitura davanti allo specchio dell’ascensore cola giù eruttato dai loro brufoli: di questa materia semiliquida e semisolida sono fatti gli adolescenti, dentro.
Perché mai frotte di siffatte bestiole, ti chiedi al concerto mentre sei circondato dal loro insensato movimento, in questo istante non si trovano in uno di quei recinti costruiti apposta per il loro a dimenarsi, magari ai ritmi ossessivi che tanto sembrano prediligere, e ristagnano invece qui, nel loro volo immondo, accanto a me, ometto di mezza età, ceto medio riflessivo, incline all’odio generazionale e allo struggimento per quelle nostalgie che Bianconi sa prima far emergere contro la tua volontà,  e poi sublimare fino al rapimento estatico? Lo puoi capire solo al concerto.

Il motivo per cui Bianconi piace agli adolescenti è che Bianconi ha pietà di loro.
Nei suoi i testi non è raro  imbattersi in espressioni che in apparenza suonino come esplicito disgusto o riprovazione nei confronti degli adolescenti. Eppure sono proprio queste ad euforizzare i pappapani durante il concerto, e con quale intensità.
Prendiamo due canzoni simbolo dei Baustelle, che – appunto- hanno per protagonista un adolescente: la ragazzina suicida de La guerra è finita e il quindicenne passivo/aggressivo di Charlie fa surf.

Della prima Bianconi ci dice già nel primo verso che era una stronza, e – attribuendo la valutazione a un suo insegnante – la definisce poi emotivamente instabile/viziata ed insensibile (e quanto gli piacciono ai fan in età puberale questi versi, e come li cantano a squarciagola, riconoscendosi in pieno della definizione).
A Charlie, invece, prototipo del bimbominichia impasticcomane, iperattivo e nichilista, Bianconi augura che qualcuno (un educatore all’altezza della propria funzione?) faccia opera caritatevole, sfigurandogli il volto con una mazza da golf, sì da correggerne la scalmanata condotta.

Strano che gli adolescenti adorino chi li canti in questi termini? No. Perché gli adolescenti, essendo ancora incapaci di pensiero, sentono molto più distintamente di noi. E sentono che con quei versi Bianconi sta distribuendo loro il perdono.
La descrizione (magnifica e molto profonda) che fa di certi loro tipici (forse anche stereotipici) atteggiamenti trasuda empatia, un’empatia causata dal fatto che oltre all’assenza di un giudizio (e quindi di una condanna), è presente il riconoscimento.
Mon semblable, mon frere diceva Baudelaire (che Bianconi cita ed evoca di continuo) rivolgendosi al suo lettore ipocrita (che finge di ignorare la noia e lo spleen esistenziale che il poeta invoca) più o meno così come Bianconi si rivolge al suo pubblico ipocrita (io, che fingo di aver rimosso ciò che fui e in parte ancora sono). Quindi è come se davanti allo specchio del tempo Bianconi vedesse non se stesso com’è oggi, ma la destrutturazione degli stadi attraversati dal sé che è stato fino ad oggi.

Bianconi parla sempre e solo di passato, di quel che siamo stati e non saremo più, e in questo vedersi come accumulo di scorie e ipotesi scartate l’adolescenza è un mattoncino di lego bello grosso, e di un colore sgargiante, su cui a Bianconi, che possiede questa meravigliosa, misticheggiante e pànica malinconia, risulta obbligatorio fermare con insistenza lo sguardo.
Una delle canzoni più struggenti dell’ultimo album, Il futuro, è la candida confessione dell’incapacità di dimenticare sé stessi, il terrore di calcificarsi nello stallo:

«Il futuro cementifica
la vita possibile»

dice un verso, e l’età della vita possibile è per antonomasia l’adolescenza, passata la quale comincia la desertificazione dell’ipotetico: solo ciò che è ancora in nuce può aspirare alla vita, raggiunta la quale resta solo la nostalgia, che è il sentimento predominante di questo album, tutto dedicato al tempo.

La salvezza, in Bianconi, viene solo dalla possibilità di non dimenticare, di ricordare, di ricordarsi da vivi:
«il passato adesso è piccolo
ma so ricordarmelo:
io, Gianluca, Rocco e Nicholas
felici nel traffico
di un marciapiede del Pigneto vite fa.

Del resto il tempo è anche il tema di altri capolavori precedenti, come Le Rane, mentre tutto il primo album Sussidiario illustrato della giovinezza è solo una prova, un magnifico fallimento, perché è tutto un tentativo di rendere e rivivere l’adolescenza, anziché di comprenderla e perdonarla, come avviene nei successivi.

Insomma, i piccoli pappapani adorano sentirsi tirare le orecchie da Bianconi perché lui fingendo di rimproverarli (cioè fingendosi uno di quegli adulti che li rimproverano, e dunque schernendo gli adulti che li rimproverano) li descrive senza in realtà rimproverarli affatto: non siete colpevoli delle vostre azioni, a essere colpevole è solo la vostra età.
Bianconi è una specie di Gesù, ha questo dono salvifico per tutti: non giudica te, giudica l’umano di cui sei chiamato tuo malgrado a partecipare. E nulla di ciò è umano gli è estraneo, adolescenza compresa. E allora sì, era una stronza, ma aveva sedici anni appena. E per avere pietà di Charlie è necessario non avere alcuna pietà:

«una mazza da baseball
quanto bene gli fa».

Un altro motivo per cui Bianconi raccoglie il gradimento di una età tanto difficile suppongo sia la cernita che sa fare del materiale scolastico. È una deduzione effettuata sulla base dell’applausometro, e nell’unico suo concerto cui abbia assistito (Taormina, 30 luglio 2013): quando l’adolescente rintraccia la citazione, ne gode.
Perché Bianconi alla fine cita le cose che dovremmo sapere tutti, i poeti e gli scrittori che si studiano a scuola, e proprio in quell’età lì: Dante, Foscolo, Montale. A me sembra una cosa meravigliosa, un atto di coraggio luminoso. L’adolescente sente che la scuola non esiste invano, apprezza il fatto di poter tramite essa apprezzare meglio qualcosa che apprezza già (le canzoni dei Baustelle). E se li guardi in faccia, a un concerto, te ne accorgi subito: c’è gioia nel condividere un sapere.

Gioia che appartiene a tutti, e che veramente unifica passato e futuro nel presente: Monumentale ti uccide di bellezza per vari motivi, irriassumibili.
C’è il folle ardire di scrivere oggi, nel 2013, un ode cimiteriale: anacronismo, pretesa di assoluto, ambizione smodata all’eterno, che però si coniuga con un crepuscolarismo dimesso, un richiamo all’attualità quasi giornalistico, che non te lo aspetti e ti stende (è un duetto, e nei duetti credo di avere capito come si dividono i compiti quei due: Bianconi ti sfinisce, ma poi è Rachele che ti finisce, tipo qui, al minuto 0: 55, quando dice e piangi, che veramente ti viene da piangere).
E poi c’è il carico di ricordi da liceo che si tira dietro il rievocare I sepolcri (con una classe infinita, che il Venditti di Notte prima degli esami già se la sognava):

«tra le tombe del monumentale, 
trovi Dio,
trovi Montale, ed un’opaca infinità
Quindi lascia perdere i salotti
coi talenti e le baldracche, 
vieni all’ombra dei cipressi 
dona amore, al pomeriggio
a chi sospende la sua vita
tra le urne amiche del monumentale, 
di realtà
e d’irreale, vieni a fartene un’idea».

Chi sta esortando Bianconi a farsene un’idea? Per me non c’è dubbio: sta parlando con un adolescente. Che magari poi c’ha quarant’anni e somiglia a un pappapane con le ali. Ma questo è il vero dramma, quello di cui non mi va di parlare.

Mario Fillioley

Ho tradotto libri dall'inglese in italiano. Poi ho insegnato italiano agli americani. Poi non c'ho capito più niente e mi sono messo a scrivere su un blog con un nome strano: aciribiceci.com