TI VOGLIO BENE A TE E FAMIGLIA

Uno dei motivi per cui vale la pena vivere nell’epoca dei cellulari sono gli auguri di fine anno.

La telefonia mobile consente di fare in pubblico anche quelle chiamate che un tempo si sarebbero fatte in privato, tipo la cosiddetta telefonata di cortesia.

Prima ci si piazzava con calma olimpica accanto all’apparecchio, si assumeva la posa del discobolo col bacino in torsione, e si cercava di imprimere al dito una potenza sufficiente a comporre il numero sulla ghiera di bachelite.

Già stremati dalla teleselezione come pugili all’ottava ripresa, ci si accasciava sull’apposita sedia che i secondi ti piazzavano sotto al culo un istante dopo il suono del gong. La serie di insulsi convenevoli che partiva subito dopo il pronto rimaneva tra stalker e stalkato, e al massimo arrivava in soggiorno o in cucina, dove c’era sempre un familiare cui, prima di cominciare la telefonata, venivano impartite le istruzioni per il salvataggio: se la cosa si fa lunga, vieni di là e dì a voce alta che ti serve subito il telefono.

Oggi invece la chiamata di cortesia la fai anche mentre sei in coda dal salumiere per il ripieno del falsomagro , tu hai il numero 87 e la sala è così piena che stanno servendo il 14.

Dall’avvento della telefonia mobile in poi, per le comunicazioni ufficiali, o peggio ancora intime e riservate, è stata decretata una Glasnost più radicale di quella che valse il Nobel a Gorbaciov, e basta salire sull’autobus per ascoltare cosa tutti dicono a tutti come manco in quel film sulle vite degli altri.

Per fortuna la sovraesposizione al fenomeno genera indifferenza, e a certe telefonate si impara presto a non farci più caso (non è che puoi drizzare le orecchie a ogni butta la pasta che sto arrivando).

Ma alcune, tipo quelle fatte sotto le feste per chiamare la zia Pippina che sta al Pozzallo o per ringraziare il cavaliere Micciché che a Natale ha mandato una cassetta di liquori, esercitano ancora un magnetismo irresistibile, capace di sconvolgere in pochi secondi tutto il tuo convinto garantismo in materia di privacy.

Ed effettivamente, della possibilità di poter ascoltare questo tipo di telefonate, c’è da gioire fino a illuminarsi dall’interno e brillare come un display umano.

Nessuno ti può rimproverare di stare origliando, perché al limite ti ci puoi pure incazzare di sopra e impiantargli una questione di principio tipo si vergogniquesto è suolo pubblicose non vuole essere ascoltato vada a telefonare a casa sua, quando in realtà, se solo potessi, gli piazzeresti una cimice nel cappotto e lo staresti ad ascoltare per più ore di quante i pm di Milano abbiano ascoltato la Minetti.

E tutto per nobili scopi scientifici.

Perché la telefonata di auguri è il laboratorio linguistico più hi-tech della città, quello dove si sperimentano gli innesti, le talee e gli ibridi di ultima generazione, e da cui alla fine esce puntuale il nuovo conio.

La nuova moneta sta girando parecchio, e si vede subito che possiede un tintinnio musicale di impianto classico, una certa levità, e perfino un grado di piacevolezza tattile che rende possibile spenderla anche più e più volte all’interno della stessa conversazione, in una sommatoria che ne aumenta il valore fino a tramutarla in banconota.

Se però si vuole che la filigrana risalti con la nettezza che merita, c’è da scriverla andando a capo, per leggerla in controluce:

TI VOGLIO BENE A TE E FAMIGLIA

Nella sua apparente semplicità, somiglia a un tablet. Lo guardi e pensi che sia un oggetto banale, una specie vassoietto per il caffè retroilluminato. Poi invece ci clicchi sopra e ti accorgi che contiene milioni di app che ti cambiano la vita.

Intanto, è una frase che metti su tutto: va bene per il parente lontano come per l’amico stretto, per il collega di ufficio come per coso, quello che ci giochi a calcetto tutte le settimane ma non ti ricordi mai come si chiama.

E poi la puoi usare sia come esordio che come congedo: è molto teatrale che una telefonata di auguri cominci con un ciao Pippo, ti voglio bene a te e famiglia, ed è altrettanto drammaturgico che si concluda con un ciao Pippo, ti voglio bene a te e famiglia.

I gourmet la consigliano comunque come dessert, perché si colora di un pathos intenso e pure un po’ tragico, ed è un commiato di quelli che quando cala il sipario partono sia le lacrime che gli applausi.

C’è il pronome indiretto declinato sia in forma tonica che in forma atona, due volte, che è il segnale dell’opulenza tipica delle tavolate di questo periodo (se devi apparecchiare, allora che gli addobbi siano ricchi: perché lesinare sulle particelle?).

C’è anche quell’estendere il sentimento alla famiglia, che testimonia la voglia di inclusione, cioè il vero spirito del Natale e di ogni solidarietà umana.

E poi c’è l’innesto di antico su moderno, che è il suo vero tratto distintivo.

Perché TI VOGLIO BENE A TE E FAMIGLIA è una frase composta da due frasi separate, che si agganciano praticamente senza giunture e senza cardini, come i vagoni di quei futuribili treni giapponesi, che sono tenuti insieme da un campo magnetico. Un miracolo della fisica.

Il primo vagone è TI VOGLIO BENE, ed è la parte moderna. È quello che in linguistica si definisce un calco, viene cioè pari pari dai film o dalle serie tv americane.

Noi, ti voglio bene, non lo dicevamo spesso, meno che mai al telefono. Era una cosa che scrivevamo solo alla scuola elementare e solo per i lavoretti della festa della mamma o del papà. Ma nei film o nei telefilm, gli americani se lo dicono in continuazione: non solo la mamma alla figlia e il fratello alla sorella, ma pure il vampiro all’aglio e Superman a Lex Luthor (se non sono al telefono, dopo si abbracciano e piangono insieme, se sono al telefono, chiudono e piangono ognuno per conto suo).

Questa cosa ci è piaciuta tanto e vorremmo farla anche noi, perché, in generale, anche noi vorremmo vivere dentro a un telefilm americano dove tutti si vogliono bene e soprattutto se lo dicono in continuazione.

Però, se ancora a dircelo in privato facciamo un po’ fatica, per qualche misteriosa ragione (forse legata alle radiazioni della tv satellitare) dirlo al telefono al semisconosciuto cavaliere Micciché mentre siamo seduti in pizzeria, al centro della sala e con tutti gli avventori girati verso di noi con le orecchie a doberman, viene quasi naturale.

Perché in pratica la parte del telefilm americano che ci piace di più è che quando l’attore dice ti voglio bene ha un pubblico che lo guarda: un pubblico che siamo noi, che vorremmo essere lui. Quindi appena intravediamo la possibilità di avere un’audience, la afferriamo al volo e ci esibiamo in un monologo telefonico, sperando che il nostro talento venga finalmente notato da uno scout a caccia di personaggi da reality.

Il secondo vagone è A TE E FAMIGLIA, che arriva da  un tempo  lontano, ed è la parte formale, classica, un po’ rigida, un po’ da telegramma o da biglietto prestampato del nuovo ibrido. Pronunciate insieme, come se fossero una sola, creano una specie di schizofrenia verbale: quando te la senti dire, è come se a farti gli auguri fosse un ogm, la sintesi perfetta tra un librettista di melodrammi che verga rime e un appuntato dei carabinieri che stende un verbale.

E siccome è pure abbastanza nuova, ti prende alla sprovvista: non è che hai subito la controfrase pronta.

A cosa devi rispondere ci devi pensare. Vai alla ricerca di un botta e risposta di quelli collaudati. Quelli per cui a un grazie si risponde sempre con un prego e a un buon appetito si risponde sempre con un altrettanto. Ma niente, non ti viene in mente nulla.

È solo quando il silenzio si sta protraendo oltre il normale e tu stai pensando che ormai l’unica cosa da fare sia simulare una caduta della linea, che ti viene l’illuminazione.

Perché alla fine alla soluzione ci arriviamo tutti, basta solo qualche secondo in più. La risposta a ti voglio bene a te e famiglia può essere una e una soltanto:

ANCH’IO A TE E FAMIGLIA

Il fatto che nessuno debba insegnarti cosa rispondere, come se lo sapessi da sempre e lo avessi solo dimenticato, è la certezza che quella appena imparata è una formula di rito. È nuova, ma è ancestrale. È appena nata, ma il suo dna era già stato decodificato molto prima che nascesse. Anzi non è nemmeno nata: c’era già, c’è sempre stata. Espressioni come questa sono come la materia: non si creano e non si distruggono, ma si trasformano. Oggi ha questa forma, domani forse ne avrà un’altra. Invecchiando, quando ce la troveremo davanti saremo costretti a metterci gli occhiali da vicino. Ma dopo qualche attimo di smarrimento, la sapremo riconoscere.

Tag: natale
Mario Fillioley

Ho tradotto libri dall'inglese in italiano. Poi ho insegnato italiano agli americani. Poi non c'ho capito più niente e mi sono messo a scrivere su un blog con un nome strano: aciribiceci.com