Cosa l’Italia può fare per l’Europa

L’Europa dei tecnici che, da Draghi a Monti, di fatto governa buona parte del sud Europa e degli altri Stati in crisi di debito, svolge con grande determinazione il suo compito. Senza possibilità né mandato di cambiare le variabili politiche di fondo, le scelte tecniche hanno il compito di trovare la soluzione più efficiente alle condizioni date.

Dopo il piano-Draghi che consente alla Bce acquisti difensivi di debito pubblico, il passaggio successivo sarà nella direzione dell’unione bancaria, e poi?
Similmente a quanto avviene in Italia, anche in Europa si sta esaurendo il tempo dei tecnici che, come è giusto, lascia aperta la questione di fondo che riguarda le asimmetrie persistenti tra i Paesi europei, questione politica che ancora non ha conosciuto una discussione realistica.

Si sono sentiti e letti auspici di “salto in avanti” verso forme di federalismo fiscale e solidarietà economica, auspici che spesso si risolvono in una richiesta indiretta di trasferimenti dagli Stati più ricchi a quelli a crescita stagnante – magari sotto forma di garanzia per Eurobond. Tuttavia, infervorarsi oggi sostenendo l’urgenza di eleggere direttamente un presidente degli Stati Uniti d’Europa, o argomentare la necessità di piani di grandi opere continentali in sostanza finanziate dai tedeschi non serve ad avvicinarsi ad una soluzione politica realistica e fattibile.

È diventato ormai chiaro infatti che lo sviluppo politico dell’Unione Europea non dipende dallo scontro tra la destra liberista e la sinistra sociale: Hollande e la Spd sono entrambi saldamente nel solco di Sarkozy e Merkel. Il tema, come sempre è stato, riguarda i rapporti tra le nazioni nella loro interezza, deve essere rispettoso dunque sia degli interessi dei diversi popoli che dei cicli politici che li rappresentano.
Il tema profondo, finora eluso, è che la differenza di trend economici è specchio della distanza tra le democrazie del nord, che hanno ristrutturato il loro contratto sociale per adeguarsi ai ritmi dell’economia globalizzata, e quelle del sud che – anziché giovarsi delle mani legate dall’euro, come si augurava negli anni 80 Francesco Giavazzi – si sono sentite, al riparo nell’euro, con le mani libere.

Dell’Italia e della sua incapacità di ridurre il debito approfittando dei bassissimi tassi d’interesse, si è scritto molto; come del carattere incoerente delle riforme degli anni 90. La crisi Greca è, in maniera ancora più trasparente, figlia della irresponsabilità della classe politica che ha occultato artificialmente il buco di bilancio creato per acquistare consensi a colpi di assunzioni pubbliche e pensionamenti a pioggia. Spiega Luis Garicano sul blog della London School of Economics, che la responsabilità della attuale crisi spagnola sia da attribuire alle Cajas, banche regionali dai vertici di nomina politica, spesso scelti tra burocrati di nessuna competenza. Le Cajas hanno perseguito negli anni di tassi bassi pratiche clientelari e hanno continuato ad accumulare debiti anche dopo e durante la crisi finanziaria.

Da un punto di vista economico non c’è dubbio che la condizione dell’Italia sia molto più solida di quella degli altri paesi mediterranei, e siamo stati in grado con duri sacrifici ma anche con relativa facilità di aggiustare i nostri conti. Ma a questo punto, per poter rafforzare i legami politici con i Paesi del nord Europa, i Paesi del sud devono dimostrare altro che semplici cifre in ordine, o indici di flessibilità del lavoro in ribasso. È evidente e comune a questi paesi – in grado diverso, certo – la necessità di un cambio di rotta nei processi di funzionamento dell’economia e del suo rapporto con lo Stato. Un cambiamento che deve trasmettere il senso dell’abbandono di pratiche corporative, chiuse e discrezionali, e un avvicinamento leggibile alle pratiche più trasparenti del nord Europa. In altre parole, una volta risolto il problema tecnico, il punto politico per i Paesi in ritardo di crescita è quello di avviare un percorso di riforme endogene, pratiche nuove che sia possibile raccontare in maniera credibile ai partner europei.

Proprio per la sua maggior forza economica l’Italia potrebbe svolgere su questo un ruolo di guida per i Paesi mediterranei, che dovrebbero rivendicare su se stessi l’onere della prova, promuovendo una iniziativa politica che per una volta, anziché seguire indicazioni esterne si appropri di una agenda di riforme comuni, rivendicandone l’utilità e il percorso. In questo modo si potrebbero perseguire due obiettivi: stimolare nuovi processi di crescita economica solida mentre si mostra ai partner europei l’utilità e l’opportunità di un ulteriore rafforzamento dei legami comuni con chi, fino ad ora, ha confermato le peggiori previsioni dell’inizio degli anni ’90.

(Pubblicato sul Sole 24 Ore)

Marco Simoni

Appassionato di economia politica, in teoria e pratica; romano di nascita e cuore, familiare col mondo anglosassone. Su Twitter è @marcosimoni_