Un’idea di scrittura

In generale, le regole esistono per ragioni di efficacia: si suppone che generino buoni risultati rispetto all’ambito per cui sono stabilite, e vengono adattate e cambiate quando altre cose cambiano, e quando i risultati si possono migliorare. L’abitudine a pensare che le regole siano invece l’urgenza prioritaria, da rispettare e riverire “in quanto tali”, è ciò che genera fanatismi, integralismi e disastri, in molti casi e contesti. Le regole sono un mezzo, non il fine.

Questo preambolo a cui non ho saputo sottrarmi, per una mia frequente tentazione a mettere dentro tutto, serve a introdurre un tema più limitato e in parte personale, quello della scrittura e dell’uso del linguaggio in genere. Dirò delle cose che sono valide per me, senza pretese universali, ché ci sono studiosi esperti e dilettanti sensibili con cui non voglio litigare, la domenica, poi.

La scrittura, come pezzo della comunicazione, ha due priorità, per me: una è di far capire con maggiore esattezza e riuscita possibile quello che vuole far capire. Ragioni di efficacia, chiamiamole. L’altra è di farlo con risultati esteticamente e stilisticamente soddisfacenti per l’autore. Ragioni di “bellezza”. Vale per molte cose, naturalmente, non dico niente di nuovo. L’architettura e il design, l’esempio più immediato, sono i campi in cui il dibattito sull’importanza di forma e funzione e sul loro rapporto è più longevo e presente. La scrittura è una forma di design, peraltro.
Quelle che ho chiamato ragioni di bellezza, bisogna dire, in parte ricadono già nelle ragioni di efficacia: un prodotto di design, o di comunicazione, ottiene spesso maggiore efficacia nelle sue funzioni se i suoi utenti godono anche della sua bellezza; e a sua volta, questo godimento è una funzione.

Quando si scrive, o quando si usa la lingua coscientemente, le due priorità dovrebbero essere quelle: quindi “le regole” servono solo – ovvero in tantissimi casi – se servono queste due priorità e facilitano la loro realizzazione. E possono invece essere violate ogni volta che violarle consenta risultati migliori: se io adesso scrivo finquicisiàmo? non sto commettendo un errore da correggere, sto usando una formula a mio parere adeguata e inconsueta per inserire un inciso che suggerisca un’espressione unica e parlata e che la segnali come una specie di momentanea pausa in questa esposizione. Naturalmente questa considerazione è riuscita se voi lo capite: se l’effetto non si ottiene, la mia scelta fallisce, almeno nel suo obiettivo di comunicare esattamente (poi uno può anche spostare le priorità e scrivere per piacere e utilità propri e basta).

In questo senso, la lingua corretta è la lingua “che si capisce”, ovvero che è fatta di scelte che permettono di rendere ciò che si scrive più aderente possibile a ciò che si vuole comunicare. Non esistono “errori” rispetto alle regole: esistono errori solo rispetto all’obiettivo (come ho detto, molto spesso coincidono, è la ragione per cui abbiamo stabilito delle regole). Un uso sbagliato della lingua è quello che usa parole ed espressioni distanti dal significato esatto delle cose, o superflue, senza ragioni specifiche estetiche o stilistiche. Usare il pronome “gli” al posto del “le” al femminile – pratica sempre più diffusa – non crea quasi nessun problema di comprensione (a volte impedisce di capire che si sta parlando di una donna, ma raramente): però a molti di noi fa un po’ schifo, per abitudini culturali. I due obiettivi trovano quindi compromessi ed equilibri diversi in contesti diversi: dalle indicazioni stradali alla poesia, efficacia e bellezza si sostengono a vicenda, traboccando l’una nell’altra in diverse proporzioni, e dipendendo dalle sensibilità dell’autore e da quelle presunte dei lettori.

Concludo con un riferimento concreto e spero utile alle frequenti polemiche contemporanee sui modi di scrivere altrui. Io credo che il criterio fondamentale di uso delle parole sia uno soltanto: che le parole siano ogni volta, ciascuna di loro, scelte. Che tutto sia lecito a patto che sia consapevole, deliberato, basato su una cultura delle opportunità della lingua più ricca possibile, e giunto ogni volta alla conclusione che tra le molte opzioni possibiliquella sia la migliore possibile rispetto ai due criteri detti. Se questo avviene, si può usare il pronome “gli” al femminile (se l’autore ne avrà considerato favorevolmente l’efficacia e l’estetica, per chissà quali ragioni) e si può scrivere di tutto, persino “al vaglio degli inquirenti”, quando ci si convinca che in quel determinato caso sia l’espressione adatta a fare capire quella cosa e quella stilisticamente più soddisfacente (a me mai capitato, ma son gusti). Il fatto è che tantissime volte viene usata, quella e milioni di altre, per pigrizia, senza neanche sapere cosa sia un vaglio. E sono questi gli errori di scrittura, non sapere, non scegliere, farsi portare. La buona lingua è una lingua conosciuta e scelta.

Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).