Le elezioni del 2017 viste dal 2016

Stavo per scrivere un post sulle valutazioni di questo primo turno delle amministrative, ma mi sono reso conto che l’avevo scritto un anno fa: si sono ribaltate alcune cose, ma le questioni su come raccontarle restano uguali. La “frana di Grillo” e simili, per esempio, sono analisi da cinema ed esagerate: coerenti e conseguenti all’aver sostenuto l’anno passato che il M5S avesse dilagato alle elezioni amministrative 2016. Non era vero allora, non è vero oggi. Il M5S si è confermato un partito incapace di convincere gli elettori nei collegi locali, in parte per le ragioni esposte qualche giorno fa in questo articolo del Foglio.

L’assenza di leadership che emergono spontaneamente e che per questo vengono riconosciute (a parte qualche eccezione come la Appendino a Torino, Pizzarotti a Parma e Nogarin a Livorno), l’interesse a salvaguardare l’immagine del partito nazionale, l’assenza di un meccanismo di risoluzione dei conflitti interni e il verticismo, fanno sì che alle prime difficoltà il comitato centrale ristretto del partito decida che è meglio non presentarsi.

E in parte perché il “voto di protesta”, e il desiderio di mandare tutto al diavolo votando gli sfasciacarrozze, si indebolisce su piano locale, dove c’è maggior concretezza e maggior rapporto diretto con gli amministratori e il loro lavoro: i “vecchi” suonano meno lontani, i “nuovi” suonano più scarsi, i rischi suonano più vicini.

E insomma, la singolare vittoria di Appendino a Torino continua a essere il fattore di eccitazione mediatica di tutto quanto, nel bene e nel male: l’anomalia che fece dire un anno fa che il M5S era diventato un partito di successo sul territorio, e che fa dire oggi che ha già smesso di esserlo. Non che sia da sottovalutare: il terzo partito, ci mancherebbe. Ma è il terzo partito. E insomma incollo qui un pezzo di quel post dell’anno passato.

C’è un tema generale di riduzione a sintesi minima e a slogan di fenomeni e dati che sono complessi. Ne abbiamo parlato spesso. Che Raggi abbia stravinto a Roma si può dire senz’altro, lì la complessità è assai ridotta. Ma altre cose stanno venendo vendute come semplici ed esatte in cerca di titoli, zizzanie, catastrofi, successoni, eccetera. Il primo esempio è il risultato generale, che anche adesso come due settimane fa non è riducibile a una frase da titolo, e quindi i titoli sono costretti ad essere ingannevoli. Il presunto plateale successo del M5S è dato in ultima analisi solo dalla vittoria del M5S a Torino (che non è poco, di per sé). Provate a immaginare che Fassino e il PD avessero conservato Torino e realizzerete che ora non staremmo qui a celebrare questa pretesa grande ondata grillina: staremmo a celebrare di certo la straordinaria ma prevista vittoria di Roma, e una discreta quantità di vittorie del M5S in alcuni comuni non capoluogo (nei capoluoghi resta sempre a tre su venti): che siano “19 su 20” di quelli in cui era andato al ballottaggio è appunto un bel risultato ma manca un pezzo della storia. Era infatti andato al ballottaggio in 20 comuni su 126, e in quasi tutti gli altri – prendi Milano su tutti – non era un caso che non ci fosse: era perché è troppo debole. Aveva già perso prima di arrivarci, al ballottaggio, o prima del primo turno addirittura.
Quindi la notizia è che il M5S ha vinto a Torino: notizia grossa, ma che da sola ha spostato tutte le valutazioni sul risultato complessivo e spinto commentatori compulsivi – e alcuni un po’ interessati – a sancire il trionfo del M5S, le sue possibilità di governo, la crisi palese del renzismo. La crisi palese del renzismo c’è, ma non da lunedì: c’era già e si vedeva in altre cose (ci arrivo dopo). Quanto alle possibilità di governo del M5S – che fino a quindici giorni fa era ritenuto un partito in rallentamento, confermato dai risultati dei primi turni – di certo tutto questo “hype” mediatico finirà per aiutarle, come accade spesso con questi meccanismi, autodimostrandosi.

Già che ci siamo, aggiungo un’altra parte di quel post, anche quella valida a ogni rituale annuncio che “uniti si vince”, stavolta a destra.

In questo genere di tic infondati sta anche una cosa più piccola: l’espressione “uniti si vince”, tanto banale quanto sciocca (segnalo che Salvini l’aveva usata molto su Milano dopo il primo turno, e ieri chissà come ha smesso). Non solo è infatti ovvio che “uniti” si sia più forti che divisi, a meno che non ci si unisca a quattro gatti nazisti controproducenti. Ma è anche falso che “si vince” per forza: a Milano il centrodestra unito ha comunque perso. A Roma il centrosinistra unito avrebbe straperso comunque.

E un tema che è diventato nel frattempo persino banale.

C’è un andamento sociale che riguarda tutto l’Occidente e che – caso raro nella storia, ma non inedito – muove le sue civiltà verso il regresso e non verso il progresso: anzi rivendica spesso il regresso stesso, contesta la competenza, la cultura, l’esperienza, e usa gli strumenti che sono arrivati per superare il gap tradizionale dato da quei caratteri e sostenere che sia meglio il “normale” dell’eccezionale, l’ignoranza della sapienza, l’ingenuità dell’esperienza. Non che non ci siano colpe e responsabilità delle élite, in questo – sono enormi -, però di questo parliamo, di un fenomeno mondiale e dei tempi: altro che analisi ombelicali sulla crisi del renzismo (se esiste poi il renzismo: esiste Renzi) e ipotesi che il fenomeno si arresti con dei ritocchi alla legge elettorale. Se si arresta, si arresta rispondendo alle ragioni che lo hanno creato e lo alimentano, e consapevoli che è un lavoro difficile e controcorrente.

Infine, un altro fronte su cui le cose hanno preso quella piega là.

Il renzismo non esiste: esistono Renzi, i renziani fedeli che vanno dal leale e corretto all’ottuso aggressivo (alcuni di questi sono ormai della stessa pasta dei tanto contestati squadristi bersaniani del giro prima, e si avvicinano a quella degli squadristi grillini), e i renziani brillanti e capaci che se ne sono quasi tutti andati. Il progetto di “superare le divisioni”, di unire, di coordinare e mettere insieme “le forze migliori del paese”, di cambiare metodo alla politica, si è riconvertito a “gufi!” e lanciafiamme. Tutto già visto.
Niente di irrisolvibile e definitivo – non cederò pure io all’analisi drastica e perentoria – se sei mooolto bravo: ma se eri mooolto bravo forse non perdevi Torino, eccetera.

Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).