Ognuno ha la scissione che si merita

Anche se ci fossero ulteriori alzate di gomito nelle prossime ore, la “scissione” del PD si sta rivelando per quella che qualunque osservatore sensato e non ostaggio del sensazionalismo dei quotidiani sospettava fosse dall’inizio, ovvero l’uscita possibile dal partito di tre o quattro suoi esponenti noti, di decine e decine che ne ha. Uscita a sua volta ancora da concretizzarsi, eventualmente, ma che ha creato però intanto uno psicodramma imbarazzante e assai dannoso per il partito, con le complicità di molti attori, in misure diverse.

Matteo Renzi. Gli è venuto il panico da uscita di scena, come a qualunque personaggio televisivo a cui chiudano un programma e nessuno lo chiami per un paio di settimane. Giustificato dal fatto che l’esperienza con il partito e con il gruppo che lo circonda – del cui assemblaggio e conservazione è pienamente responsabile, il suo primo fallimento – farebbe temere il peggio a chiunque, non ha accettato di lavorare per rientrare da potenziale vincitore tra un anno, preferendo rimettersi in competizione subito, ancora da sconfitto al referendum e ora pure coprotagonista della disarmante scena di questi giorni. Non si capisce quali cambiamenti di scenario gli suggeriscano di poter avere a ottobre successi maggiori di quelli di dicembre (né quale consulente di matematica gli faccia pensare di avere i voti di quel 40%): avrebbe dovuto ripensarsi e riraccontarsi – la spinta propulsiva del suo primitivo successo è esaurita, altro ci vorrebbe, ora – e invece è rientrato in scena con ancora gli abiti laceri della fine atto precedente. Non è il suo diritto a decidere come ha deciso a essere in discussione – sul ricatto ha ragione: una piccola minoranza non ottiene con le minacce quello che non è in grado di ottenere democraticamente – e non lo sono le vicende del PD: ma quelle dell’Italia e della sua di Renzi eventuale possibilità di occuparsene proficuamente, cose che non hanno di certo beneficiato di questo improvvisato e sciatto rientro. Non è la prima volta che capita: chissà se si impara, ad aspettare la gallina domani.

(continua)

Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).