Cercare la fragilità nell’architettura contemporanea

Una delle conseguenze più interessanti della grande crisi che sta attraversando il nostro mondo è sicuramente la progressiva rottamazione di una serie di grandi progetti destinati a cambiare il destino e l’orizzonte fisico delle nostre metropoli. Nei prossimi anni, rileggendo questa fase storica, potremo guardare a questo immenso, spropositato cimitero degli elefanti, con una sensazione di sollievo, più che con la sensazione di aver perso una grande occasione, e questo avverrà solo se avremo la capacità di attraversare questo momento con occhi e strumenti diversi.

Si tratta di una metamorfosi interessante che sta rimescolando storie, percorsi, parole d’ordine senza che i confini e i limiti del mondo nuovo in cui stiamo entrando siano ancora definiti, ma tutto questo rende questa condizione ancora più delicata e decisiva imponendoci di osservare e conservare le tracce anche più insignificanti con un’attenzione conseguente ai tempi che viviamo.

In questi ultimi anni si sono moltiplicate, ad esempio, una serie di ricerche ed esperienze che tracciavano una linea sottile e molto fragile tra Natura e artificio, tra permanente e momentaneo, aprendo un filone di esperimenti e lavori che interrogano il mondo vivente in maniera inedita. C’è chi li ha demonizzati subito parlando con disprezzo di “lavori d’artista”, ma in queste operazioni intravedo, invece, un’urgenza che sorge dal confronto con la fragilità del mondo e dall’ascolto poetico dei suoi limiti.

Ci sono autori che in questo decennio hanno virato verso il mondo naturale e minerale utilizzandoli come patrimonio di forme e spazi potenti, carichi di suggestioni e incontrollabili nelle loro conseguenze. La cappella Bruder Klaus immaginata da Peter Zumthor o gli abissi verticali disegnati da Steven Holl per la facoltà di Filosofia di New York e per i dormitori dell’Mit a Boston vanno decisamente in quella direzione. Oppure le pareti per fiori e farfalle ideate da Tryptique a San Paolo, le tante sperimentazioni biomimicry soprattutto in Nord America e il progetti di architettura biodegradabile in corso d’opera in Danimarca di R&Sie(n) lab indicano una ulteriore forzatura di questa ricerca in cui architettura e Natura cercano una sovrapposizione ancora più estrema.

Ma uno dei vertici di questa ricerca è, forse, rappresentata dal lavoro visionario e teorico di Cho Ming Soon Su, una delle figure emergenti più interessanti e misteriose del panorama internazionale.

Probabilmente di origine coreana, allievo di Frei Otto, viaggiatore e fine naturalista, Soon Su ha prodotto in questi anni un solo lavoro diventato pubblico e subito diventato un “caso” per la sua inaccessibilità. Sponsorizzato da un’importante casa di cosmetici asiatica poi fallita a causa di una politica azzardata d’investimenti finanziari sul mercato europeo e degli hedge-found ad alto rischio, il lavoro di Soon Su riflette sulla fragilità estrema della nostra condizione e degli spazi che generiamo, cercando di dare forma a opere effimere e assolute.

Ho avuto modo d’incrociare solo una volta una copia di questo lavoro editoriale nella casa di un noto collezionista d’arte contemporanea. La pubblicazione è un album di grande formato; la cartella esterna è in un marocchino di pelle finemente lavorato. Non c’è titolo, data, casa editrice, né il nome dell’autore in alcuna parte di questo lavoro, ma i più chiamano questa opera con le parole che compongono ossessivamente l’unica didascalia alle immagini che in seguito avrei osservato: Inconsistenza dello spazio che abitiamo.

Una volta aperta la cartella mi sono trovato di fronte a una sequenza delicatissima di veline che avvolgono con pazienza e amore pochi fogli ripiegati a loro volta tra di loro. Queste tovagliette di cellulosa sono bianche, misteriose, indecifrabili a prima vista. Mi sono scoperto a sfogliare con curioso nervosismo le carte così delicate e opache che inviluppano queste opere singole, come se ognuna di queste confezioni così ben congegnate t’immergesse in un labirinto da cui fosse impossibile uscire.

Il collezionista mi aveva raccontato il modo in cui era riuscito a recuperare questa copia, una delle poche ancora in commercio, dopo che tutto il quantitativo prodotto era andato distrutto nel grande incendio che aveva schiantato la fabbrica di cosmetici. Si trattava di alcune copie portate in salvo dallo stesso Soon Su pochi giorni prima della tragedia e che poi erano state abbandonate dallo stesso autore durante le sue peregrinazioni, forse perché considerate pesi inutili al viaggio che è parte della sua stessa vita.

Ricordo ancora la sensazione provata nel tenere tra le dita questi fogli così fragili e unici, e la progressiva percezione delle diverse fragranze aromatiche sprigionate da quelle carte, profumi unici ideati dallo sponsor in occasione della progettazione del libro.

Una volta sfogliato il leggerissimo pacco si trattava di svelare l’arcano; nessuna indicazione, nessun simbolo; solo l’ingegno che possiamo mettere osservando lentamente un oggetto che impone attenzione. Apro i fogli legati tra di loro, li osservo senza trovare apparentemente tracce utili, ma poi mi accorgo che la filigrana di questi fogli è così fine da nascondere a prima vista un mondo di piccoli fori e bucature pressoché invisibili che attendevano di essere riconosciute.

Apro le pagine e mi accorgo che, una volta poste in verticale, i fogli compongono una piccola struttura dalle geometrie elementari. Ma ancora tutto questo, in apparenza, non mi diceva nulla.

Mi ricordo che quella era una giornata dai tempi lenti, una rarità per la vita che facciamo abitualmente, ma una fortuna per avere la possibilità di svelare questo mistero di carta bianca senza altra pressione che non fosse la mia curiosità.

Poi un caso, aiutato dalla buona sorte: un colpo di luce dall’esterno illumina improvvisamente questo castello di fogli proiettando per un attimo un’immagine sulla parete di fronte. Intuisco che la carta, per svelarsi, deve vivere con lo spazio e la Natura che lo circonda e, quindi, prendo una piccola lampada e la rivolgo verso le carte. Da questo momento tutto cambia perché le carte cominciano a parlare, raccontando sulle pareti intorno a me, i mondi e le visioni del genio di Cho Ming Soon Su. Ogni pagina di carta è una visione diversa, e ogni volta la visione rimanda a un sogno lungo un solo attimo.

Una casa le cui pareti trasparenti e leggere vengono animate per una sola notte da migliaia di lucciole; un padiglione intessuto di fibra e bachi di seta che un giorno, improvvisamente si animi di centinaia di farfalle, nate insieme nello stesso momento e libere di volare, per un solo preziosissimo giorno, in alto verso il sole fino a scomparire; una piccola vettura che si muova grazie all’azione comune di milioni di micro-organismi che insieme producono abbastanza energia per attivare un silenziosissimo moto perpetuo; un sistema di oscuramento immediato prodotto da serie di seppie allineate in batteria e immagazzinate all’interno d’intercapedini alimentate con acqua di mare. L’ultimo di questi incredibili fogli è, forse, il più enigmatico. Si tratta di un abbozzo, forse la traccia per un prossimo libro; i primi disegni alludono a un meccanismo portatile, leggerissimo, capace di registrare e di trasformare in spazio ogni sogno e umore che ci attraversa; immaginate una membrana che muta, si ingrandisce, rimpicciolisce, cresce e cambia colore e odore a seconda di quello che la notte ci ha portato e di cui non riusciamo a liberarci una volta svegliati definitivamente.

I frammenti dei sogni non svaniscono mai completamente e influenzano la nostra giornata, rimanendo sotto traccia. Con questa macchina queste essenze umorali diventano luoghi e stanza in cui stare, anche solo per un momento, e tornare in pace con le immagini che la nostra mente ha generato.

Cho Ming Soon Su apre una strada interessante alle nostre riflessioni sulla Natura e sulla fragilità estrema del nostro operare. La sua stessa figura, così evanescente, imprendibile e sconosciuta (non esistono tracce concrete del suo lavoro e della sua vita nella Rete e sui social network) è immagine stessa di questo percorso sperimentale estremo. Non ci resta che attendere il prossimo volume o un’inaspettata performance per vedere dove questi lavori ci potranno condurre.

 

 

 

Luca Molinari

Luca Molinari, storico e critico d’architettura, vive a Milano ma da qualche anno è professore ad Aversa presso la facoltà di architettura. Cura mostre ed eventi in Italia e fuori (Triennale Milano, Biennale Venezia, FMG Spazio e molto altro). Scrivere per lui è come progettare, e l’architettura è la sua magnifica ossessione. Dirige www.ymag.it sito indipendente di architettura e design