Perché è necessario cambiare il ruolo dell’architetto in Italia? Un’intervista a Leopoldo Freyrie

Leopoldo Freyrie  è il presidente del Consiglio Nazionale Architetti ha un nuovo presidente dal marzo del 2011. Architetto milanese, annata 1959, impegnato da molti anni in un interessante azione di riforma della figura del progettista sia in Italia (consigliere del CNAPPC a partire dal 1997 e come Relatore Generale del XXIII Congresso Mondiale degli architetti tenutosi a Torino nel 2008), che in Europa (nel 2001 è rappresentante del Governo italiano al Comitato Consultivo per la Formazione di Architetto presso l’Ue e nel 2004 è Presidente del Consiglio degli Architetti d’Europa), in questi ultimi mesi, Freyrie ha dimostrato una posizione interessante nei dibattiti pubblici sulla riforma delle professioni, con una visione aperta al confronto e alla messa in discussione di posizioni ormai invecchiate e superate dalla realtà. Alla vigilia del discusso e complesso passaggio parlamentare sulle liberalizzazioni ci è sembrato interessante aprire un fronte di discussione con lui riguardo al ruolo sociale dell’architettura, alle difficoltà che i giovani stanno sempre più incontrando e alle azioni concrete che si sta pensando di attivare.

LM: Da molte parti s’invoca la chiusura definitiva degli ordini professionali, mentre l’immagine del professionista sta vivendo una delle fasi più critiche nella storia del nostro Paese. Perché pensi si sia arrivati a questo punto e che responsabilità credi di riconoscere? Quale è la tua posizione su come gli Ordini Professionali dovrebbero cambiare?

Leopoldo Freyrie: Il tema vero è che le libere professioni, così come sono, non trovano spazio nel modello dell’economia globalizzata, che è indifferente all’etica, alla difesa dei valori culturali, ed è tutta incentrata sulla misura del valore finanziario di ogni prestazione.

Insomma l’architettura, come le altre discipline intellettuali, sta fuori dai rating e viene quindi marginalizzata.

Questo è il vero problema politico: come essere capaci di stare nel gioco, senza fughe fuori dalla realtà, riuscendo contemporaneamente a salvare alcuni elementi centrali e necessari per salvare i nostri mestieri, come il valore (anche economico) delle idee, la necessità dell’approccio etico e il perseguimento dell’interesse pubblico.

Le professioni, e quindi gli Ordini (perché il piccolo sta nel grande e non viceversa), devono essere capaci di garantire al cliente la capacità intellettuale, tecnica e professionale nel fare un progetto; di coadiuvare lo Stato come presidi di legalità, di servizi ai cittadini e tutela dei territori e dell’ambiente; di ritrovare, come comunità, la capacità di fare progetti per il Paese, come il programma RI.U.SO., alias Rigenerazione Urbana Sostenibile, che stiamo promuovendo

LM: Un altro capitolo attuale di forte dibattito sul fronte professionisti riguarda le tariffe e la loro liberalizzazione. In questi giorni il testo finale è in discussione e definitiva approvazione in Parlamento e ancora non è chiaro cosa ne uscirà. Potresti spiegarci che conseguenze reali potrà avere sul mercato dell’architettura? Non si corre il rischio che le realtà più piccole e giovani vengano schiacciate da questo meccanismo? Non si corre il rischio di un ulteriore corsa al ribasso nell’offerta di progettazione nel nostro Paese?

LF: La questione è coperta, in realtà, da una vera cortina fumogena “ideologica” che impedisce una discussione franca e serena sull’argomento, basata su dati analitici e certi.

I pregiudizi ideologici affliggono parte delle professioni, la Confindustria e il Governo. Il risultato è che si procede a spizzichi e bocconi, e manca un progetto condiviso e complessivo di una riforma che metta a sistema le professioni.

Noi architetti siamo 150 mila, ovvero tre volte il numero dei colleghi francesi o inglesi; i giovani sono oltre il 40%; le tariffe le abolì Bersani anni fa; il mercato per gli architetti è dimezzato negli ultimi 10 anni. Questi sono i dati numerici con cui ci dovremmo confrontare.

Il dato sociale, invece, ci dice che gli architetti italiani non sono più un’élite intellettuale di poche migliaia di progettisti, bensì una categoria composita e complessa, che svolge lavori e funzioni differenti, in ruoli diversi.

La nostra missione è comunque quella di batterci perché ad ogni ruolo o funzione sia garantita dignità e rispetto per la qualità dell’architettura. Dobbiamo anche, però, porre le condizioni perché i talenti possano emergere e dare un contributo d’innovazione all’architettura italiana.

Per questo, ad esempio, vogliamo Società Tra Professionisti governate dai professionisti e non dal socio di capitale.

LM: Uno dei grandi problemi di cui soffre oggi l’Italia è la quasi impossibilità per un giovane professionista di accedere al mercato del lavoro e di avere reali possibilità crescere.Cosa si dovrebbe fare per evitare da una parte la fuga dei giovani progettisti di talento dall’Italia e dall’altra per aiutare le giovani realtà a crescere e ad avere possibilità di esprimersi attivamente?

LF: Intanto uscire dalla logica nazionale o nazionalistica: la circolazione internazionale degli architetti è un dato storico e connaturato al nostro mestiere: un buon architetto è tale indipendentemente dalla provenienza geografica.

Perciò la domanda vera è: come fare sì che il Paese investa nei suoi talenti.

Innanzitutto la comunità degli architetti deve essere capace di suscitare l’interesse nazionale con proposte e progetti, cosa che non fa da anni, se non in circoli chiusi e iniziatici. Per fare questo dobbiamo uscire dalla logica dell’architettura come esibizione politica nel monumento attraverso la realizzazione di costosissimi musei o auditori. Dobbiamo tornare a parlare delle città e del paesaggio, risolvere i problemi della condizione del patrimonio edilizio italiano, innovare i modelli e le tecniche dell’abitare, promuovere la sostenibilità ecologica ed economica.

Poi dobbiamo creare le condizioni per affermare il merito e le idee: correggendo, per esempio, le leggi che premiano solo la capacità organizzativa o finanziaria, o creando luoghi dove chiunque possa scegliersi un architetto per quello che fa, innalzando l’offerta di qualità tecnica e professionale.

La correzione delle norme è una cosa difficile in Italia: le sistemi da una parte e si corrompono dall’altra; ma noi non molliamo e per questo la proposta di Legge per l’Architettura che noi abbiamo proposto è importante.

A marzo, poi, partirà il database nazionale degli architetti, un luogo virtuale destinato ai potenziali clienti, dove si potranno selezionare e confrontare i progetti mediante delle chiavi di ricerca.

Sul database saranno innestati una serie di premi di architettura, e si darà avvio ai Quaderni della Giovane Architettura Italiana, in collaborazione con il MIBAC, che promuoveranno i giovani talenti.

LM: Dalla tua nomina al CNAPPC cosa hai concretamente avviato per una forte modernizzazione dell’Ordine degli architetti in Italia?

LF: Il CNAPPC e gli Ordini degli Architetti hanno cambiato il tradizionale approccio ai problemi, anche a fronte di una crisi di ruolo e lavoro.

Innanzitutto abbiamo abbattuto gli steccati collaborando non solo con le altre professioni, ma anche con il mondo produttivo.

Il progetto RI.U.SO, per esempio,  è diventata una partnership con l’Associazione Nazionale dei Costruttori e con Legambiente. E’ solo un esempio di un’attitudine “aperta”, per misurarci a livello nazionale e internazionale con i diversi attori, dai sindacati agli industriali, con le Facoltà di Architettura, così come con le associazioni culturali: cerchiamo di fare proposte realizzabili, che siano la scintilla per collaborazioni utili al Paese.

Poi abbiamo affrontato il tema delle riforme senza pregiudizi, consapevoli che l’Italia ha bisogno che ognuno faccia la sua parte, rinunciando a qualcosa, ma immaginandosi nuovi ruoli per il futuro.

La modernizzazione degli Ordini non sta nelle norme per la concorrenza bensì nell’assunzione di responsabilità sociali, civili e culturali, quali organi dello Stato.

Il futuro del mestiere, e perciò delle sue rappresentanze, sta nel riprogettare l’habitat diffuso, inventando soluzioni a basso costo e alte performance, smettendo di consumare energia e acqua, usando materiali compatibili con l’ambiente, innovando le tipologie, sostituendo quartieri decrepiti e indecenti, lavorando perché gli spazi pubblici tornino luoghi di socialità vera.

Il mestiere dell’architetto ha un grande futuro se siamo capaci di avere idee e convincere il mondo produttivo, e chi governa, che le idee sono un valore aggiunto che abbassa i costi, migliora la qualità della vita e rende il futuro sostenibile.

 

Luca Molinari

Luca Molinari, storico e critico d’architettura, vive a Milano ma da qualche anno è professore ad Aversa presso la facoltà di architettura. Cura mostre ed eventi in Italia e fuori (Triennale Milano, Biennale Venezia, FMG Spazio e molto altro). Scrivere per lui è come progettare, e l’architettura è la sua magnifica ossessione. Dirige www.ymag.it sito indipendente di architettura e design